Ossessione del lavoro e trappole del progresso

Nelle Repubblica democratica del Congo il popolo dei BaNande si sente superiore rispetto alle altre etnie per il suo impegno nell'abbattere gli alberi della foresta. Ma chi è ossessionato dal suo lavoro viene considerato una persona anormale

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

13 luglio 2022

In un mio soggiorno tra i BaNande del Nord-Kivu (Repubblica democratica del Congo) di molti anni fa rimasi colpito quando, parlando con alcuni anziani, venni a sapere che esiste una specifica categoria psichiatrica inerente il lavoro. Fino a quel momento, avevo appreso l’importanza che i BaNande conferiscono alle loro tipiche attività lavorative, in particolare quella di disboscatori (abakondi) e quella di coltivatori (abahingi). Ormai sapevo che essi si considerano superiori rispetto alle etnie confinanti proprio per il loro impegno nell’abbattere gli alberi della foresta e nel lavorare i campi: le altre etnie – a cominciare dai pigmei BaMbuti all’interno della foresta equatoriale – venivano denominate ngata, “fannulloni”, “buoni a nulla”. Ma chi si ostina nel suo lavoro, chi non fa altro che pensare ad abbattere alberi o a dissodare la terra, finisce per essere considerato come un omusire, una persona anormale, qualcosa di simile a un pazzo, un alienato mentale.

La lezione di un popolo che vuole vivere in sintonia con la foresta e gli altri umani

Questione di equilibrio

I BaNande sono dei gran lavoratori e come tali sono riconosciuti anche dai loro vicini (oltre che, un tempo, dai colonizzatori europei). Se istituissimo una scala regionale per quanto riguarda l’impegno nel lavoro, non c’è dubbio che i BaNande si troverebbero in cima. Forse proprio per questo avvertono un pericolo: quello di travalicare, di essere assorbiti totalmente dal lavoro, a tal punto da compromettere il loro equilibrio, il loro benessere mentale. Questi gran lavoratori sanno che il tipo di lavoro a cui si dedicano normalmente può trasformarsi in una trappola, in un’ossessione, qualcosa di pericoloso sul piano personale ed esistenziale.

Tra i BaNande c’è un’altra figura problematica e inquietante: è l’omulimba, colui che non sa, non può, o non è interessato a cantare e a danzare. L’omulimba si sottrae all’attività sociale che maggiormente compensa il duro lavoro dei campi e in foresta. C’è qualcosa di oscuro, in questa figura marginale, in quanto non condivide sentimenti ed emozioni che soltanto canti e danze collettivi sanno esprimere. I BaNande, grandi lavoratori, sono – o forse è il caso di dire erano – anche grandi estimatori e fruitori di canti e musica: di una musica vigorosa, veloce, vitale, quella musica (omunde) che un tempo i giovani imparavano andando in foresta, durante i sei mesi dell’olusumba, il loro rituale di iniziazione.

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