21 settembre 2022
Richieste continue e minacce, rabbia contro cose e persone. La vita si trasforma in un inferno se in casa si convive con un figlio violento. Crescono le richieste di aiuto da parte di genitori in difficoltà: situazioni complesse, diventate incandescenti durante il lockdown, con padri e madri bloccati dal timore del giudizio altrui facili prede di un senso di fallimento e di angoscia costanti. A volte l’unica via d’uscita è la denuncia, ma il cammino che conduce alla decisione è doloroso e incerto. (Se cerchi un aiuto, puoi trovare qui dei contatti )
Adriana Casagrande è psicologa e psicoterapeuta e da trent’anni si occupa di dipendenze al Gruppo Abele. "Negli ultimi anni – spiega – abbiamo notato un aumento di telefonate al numero che abbiamo messo a disposizione, con richieste d’aiuto da parte di genitori che soffrivano per quello che stava accadendo nelle loro famiglie. Incontrandoli, sono emersi quadri drammatici, storie di figli violenti e di adulti al limite della sopportazione".
Chi si rivolge a voi?
Genitori che non ce la fanno e che hanno bisogno di aiuto. Tutto comincia da piccole richieste, a cui è difficile dire di no. Poi il rapporto si complica, con i ragazzi che pretendono di avere sempre di più, soldi, oggetti, vestiti. Alcuni fanno anche uso di stupefacenti. Si spera che sia un momento, un passaggio che si lascerà alle spalle e cambierà con il tempo. Ma non è così. La violenza ha molte sfaccettature, alcuni figli continuano a perseguitare i propri cari attraverso continue richieste di denaro, telefonate a qualsiasi ora, appostamenti sotto casa e minacce di morte. I genitori provano una fatica che si protrae per anni e sembra non avere fine. Chi arriva da noi è già allo stremo, mentre altre realtà possono essere definite borderline, atteggiamenti difficili da catalogare. Il maltrattamento psicologico, ad esempio, è ancora poco riconosciuto e finché il figlio non mette le mani addosso e si finisce in ospedale, il pericolo rimane sottostimato. C’è un altro passaggio molto delicato: chi decide di entrare in caserma e denunciare ha paura di non essere creduto dalle forze dell’ordine. Il timore è che si minimizzi l’accaduto catalogando i gesti come “ragazzate”. Spesso, però, sono veri e propri reati.
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Quali tipi di persone accedono al servizio?
C’è un dato triste di cui tenere conto: la maggior parte sono figli adottati che hanno un trascorso di sofferenze e abbandono con ricadute sul presente. Le famiglie non sono state accompagnate in modo adeguato nella complessa costruzione di questo tipo di rapporto. Bisogna chiarire che l’affetto non basta, non è sufficiente il “termometro d’amore”, semmai servono delle competenze specifiche. Una dinamica ricorrente è quella del genitore che ha faticato a dare delle regole al figlio. Con l’inizio dell’adolescenza l’asticella delle richieste si alza sempre di più fino a degenerare. In altri contesti ci sono un disturbo psichico importante non trattato e un consumo di sostanze stupefacenti, ad esempio cocaina o crack, che acutizzano la violenza. La conflittualità aumenta ed emerge in modo potente, accompagnata da una richiesta continua di denaro. Ci sono poi situazioni senza problemi conclamati, ma con rapporti che non funzionano all’interno del nucleo familiare. In questi casi lavorare è più semplice perché la diagnosi è meno grave e la terapia familiare produce ottimi risultati.
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Perché i genitori fanno così fatica a parlarne?
Provano vergogna, molti vivono schiacciati dal senso di colpa. Si sentono falliti nel loro ruolo di padre e madre, pensando di riuscire a far fronte a qualsiasi tipo di situazione, anche complessa. Così, quando questo non succede, pensano che siano incapaci di educare. Quello che cerchiamo di fare è spiegare loro che non sono inadeguati, ma che devono modificare alcuni comportamenti. Si parte, ad esempio, dall’analisi degli errori fatti e dalle scelte compiute per poi capire come intervenire e quale nuovo equilibrio creare. Nelle situazioni più gravi è opportuno l’allontanamento definitivo o con contatti sporadici, per instaurare un legame più sano.
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Perché si arriva a questo punto?
I ragazzi cominciano a manifestare instabilità emotive e, solo in apparenza senza motivo, hanno cambiamenti d’umore repentini, a cui fanno seguito aggressioni verbali, minacce anche pesanti del tipo “se non fai così, ti taglio la gola” o “prima o poi ti uccido”. La realtà peggiora quando, a seguito di un rifiuto, si rompono gli oggetti. Ci sono case con le porte sfondate, vetri rotti, armadi sventrati, interi appartamenti distrutti. Il passo successivo è la violenza fisica ed è allora che si comincia a vivere nel terrore e con un senso di colpa che non va più via.
"Il maltrattamento psicologico è poco riconosciuto, il passo successivo spesso è la violenza"
Cosa è successo con il lockdown?
Quando il livello di conflittualità è alto, stare chiusi tutto il giorno nello stesso appartamento non aiuta. Così, situazioni già al limite sono esplose. Questi episodi penso siano sottostimati, perché il senso di vergogna porta i maltrattati a chiedere aiuto quando non c’è altra via d’uscita. Si teme anche il giudizio dell’operatore.
Sono fatti che riguardano più i ragazzi o le ragazze?
Nel nostro osservatorio sono più i maschi, ma sto anche seguendo una mamma con una figlia minorenne che purtroppo ha questo genere di comportamenti.
Che età hanno?
Sono soprattutto adolescenti e giovani adulti. Ma ci sono anche persone di 35-40 anni.
Il fenomeno colpisce tutte le classi sociali?
Sì, è trasversale.
In che modo agite?
Il primo contatto è telefonico, i genitori raccontano la loro storia e decidiamo il tipo di percorso. Si comincia con un incontro a settimana, vista la sofferenza e lo sfinimento accumulati nel tempo. Li accogliamo ed elaboriamo il loro senso di colpa, li rinforziamo sulle loro capacità genitoriali, è una crisi che si estende dal ruolo alla persona. Poi, valutiamo insieme le strade percorribili accompagnandoli nella scelta.
"L’amore non basta, non può essere sufficiente il “termometro d’affetto”, servono competenze specifiche"
I genitori che vi contattano hanno ricevuto in passato aiuto psicologico?
Alcune coppie si sono affidate a neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, terapeuti privati, ritrovandosi sempre al punto di partenza.
Per intraprendere certi percorsi bisogna anche avere una buona disponibilità economica.
È così, il dispendio di energie emotive ed economiche è importante. Certi genitori, quando i figli sono minorenni, si rivolgono ai servizi pubblici, ma al compimento dei diciotto anni non si può più imporre nulla. Quando il giovane rifiuta l’aiuto, le cose si complicano.
La denuncia può cambiare la situazione?
Laddove tutti gli altri interventi non hanno prodotto alcun cambiamento, è un’opportunità. C’è un prima legato alla violenza, all’angoscia e alle persecuzioni, e un dopo, in cui l’atto formale in certe situazioni crea una consapevolezza sul figlio, che a sua volta può decidere di chiedere aiuto. Ci sono anche state esperienze carcerarie che per fortuna, rappresentano solo una fase, anche molto breve. Il giudice, in questi casi, comprende che non è il posto giusto e valuta esperienze differenti, magari dei percorsi in comunità. Quindi può esserci un momento di incontro, dove stabilire un nuovo equilibrio, per empatizzare il vissuto: è la rottura di una dinamica patologica, per i ragazzi l’inizio di un percorso riabilitativo.
Il progetto Querce di Mamre del Gruppo Abele è nato lo scorso aprile a Torino con l’obiettivo di accompagnare le famiglie in difficoltà e aiutarle a ritrovare equilibrio e serenità. Il servizio di accoglienza e ascolto fornisce strumenti psicologici e legali e – grazie al supporto della Compagnia di Sanpaolo – mette a disposizione degli alloggi dove i genitori possono soggiornare per “riprendere fiato”. Ad assisterli, una coppia di operatori. "Aiutiamo dove c’è bisogno con incontri anche online, siamo aperti a tutto il territorio nazionale", spiega Casagrande.
Il servizio risponde al numero 011-2486221 o alla mail accoglienza@gruppoabele.org.
Filippo (nome di fantasia) ormai racconta la sua storia a chiunque voglia ascoltarla. Una storia di maltrattamenti che subiva dal figlio Antonio (nome di fantasia) da cui è riuscito a salvarsi insieme alla sua famiglia. "Spero che la mia storia possa essere d’aiuto a qualcuno" dice, oramai convinto che alcune situazioni non si risolvano da sole. "Non trovavamo la forza di dire basta – ricorda –. Quando cercavamo di imporci, mio figlio scatenava la sua violenza contro mobili, pareti e anche su di noi. È capitato più di una volta di uscire da casa e passeggiare fino al commissariato per poi decidere, una volta arrivati alla porta d’ingresso, di non entrare". Le continue richieste di denaro hanno creato un debito enorme. "Più di un miliardo di lire. Abbiamo chiesto soldi a chiunque, parenti, amici, finanziarie, ma lui voleva sempre di più". Poi un gesto eclatante ha determinato la svolta. Dopo l’ennesimo scontro, Antonio ha aperto il frigo e vi ha urinato dentro. "La rabbia non era tanto per il cibo da buttare, ma per il disprezzo che mostrava nei nostri confronti".
Filippo e sua moglie hanno così deciso di compiere il passo decisivo. "Siamo andati in caserma, il comandante ci ha ascoltato e ha raccolto la nostra denuncia. Quindi si è consultato immediatamente con il magistrato, dicendoci di non tornare a casa per qualche giorno". Hanno chiesto aiuto al Gruppo Abele, che ha fornito alla coppia un alloggio temporaneo. "Quel giorno nostro figlio non ci ha trovati in casa e lo stesso è avvenuto il giorno successivo. A quel punto Antonio si è presentato dai carabinieri, che l’hanno arrestato con l’accusa di violenza domestica e percosse reiterate nel tempo". Dopo un periodo in carcere, ha iniziato un percorso in una comunità, a vivere a casa di alcuni amici, costruendosi un’altra vita e trovando un lavoro. "Vivevamo in una cappa di terrore, l’unica via di uscita è denunciare. Sono convinto che ci sia un universo sommerso spaventoso, le persone hanno paura di sentirsi fallite, giudicate, si sprofonda. Abbiamo due figli che sono completamente diversi ed è allora che ti chiedi “dove abbiamo sbagliato?”. Se non controlli queste valanghe di rabbia, si arriva alla tragedia. Per fortuna abbiamo trovato delle persone che hanno saputo leggere il nostro dolore".
In molti casi per le vittime la sensazione è che il mondo stia cadendo loro addosso, specie quando si accumulano i debiti. I finanziamenti possono, però, essere estinti anche grazie alla legge n. 3/2012, che si applica a gravi situazioni di crisi finanziaria e sovraindebitamento dovute a un evento non riconducibile alla propria volontà.
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