7 ottobre 2022
Sebastian Galassi aveva 26 anni. Di giorno studiava grafica per il web, di sera cercava di guadagnare qualcosa per non pesare sul bilancio familiare facendo il rider. Lo scorso 2 ottobre era al servizio di Glovo, una delle principali piattaforme di food delivery attive in Italia, quando si è schiantato contro un suv in via de Nicola a Firenze, perdendo la vita.
"Le paghe da fame e la concorrenza agguerrita ci costringono a correre per riuscire a racimolare uno stipendio, a volte anche ignorando il codice della strada” Enrico Francia - rider
Nei giorni successivi Glovo l’ha persino licenziato con una email. “Siamo spiacenti di doverti informare che il tuo account è stato disattivato per il mancato rispetto di Termini e condizioni”, si legge nel testo. Il nome di Sebastian si aggiunge al lungo e triste elenco di fattorini morti per una consegna. Una stima non esiste, ma la cronaca dà conto di almeno sette vittime nel 2022. Ai decessi si affiancano gli incidenti. Nella sola Torino, il 30 settembre tre rider sono scivolati su strada a causa della pioggia, e uno si è fratturato tre costole. Il 3 ottobre, un altro è rimasto infilzato nella sbarra metallica di un cancello che aveva tentato di scavalcare per raggiungere il cliente.
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“Quotidianità”, raccontano a lavialibera Enrico Francia, Hassan Afridi, Umberto Vici e Francesco Silvestri, quattro rider del capoluogo piemontese che chiedono una mobilitazione nazionale contro il modello di lavoro adottato dalle aziende di consegne di cibo a domicilio. Nel 2018 la politica ha iniziato a promettere tutele per la categoria. Quattro anni dopo, il bilancio è di molta propaganda e pochi risultati. “La maggior parte delle piattaforme sta abbassando sempre di più le tariffe corrisposte ai rider per ciascuna consegna e reclutando in massa – prosegue Enrico Francia –. Le paghe da fame e la concorrenza agguerrita ci costringono a correre per riuscire a racimolare uno stipendio, a volte anche ignorando il codice della strada”. Ancora inadeguata è l'assicurazione in caso di incidente sul lavoro. Prima del 2020, era il caos: le aziende offrivano un’assicurazione privata dai parametri discrezionali.
L'assicurazione Inail non tiene conto che tra una consegna e l’altra spesso le piattaforme segnalano ai rider di muoversi in zone dove ci sono più richieste
Nel 2019 la legge 128 ha imposto la copertura dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) anche ai rider. Tuttavia, la novità introdotta a partire dal febbraio dell’anno successivo ha una pecca: vale solo dal momento in cui il rider accetta l'ordine a quando arriva a casa del cliente. Se si fa male mentre scende le scale dell’appartamento in cui ha appena lasciato una pizza, fatti suoi. L’Inail motiva la regola spiegando che è l’unico modo per sapere con certezza se l’incidente è successo sul "luogo di lavoro" o meno, qualsiasi cosa l’espressione "luogo di lavoro" voglia dire in questo contesto. Non tiene neanche conto che tra una consegna e l’altra spesso le piattaforme segnalano ai rider di muoversi in zone dove ci sono più richieste. Anche in quel caso, se cade o viene investito, fatti suoi.
La situazione non è migliorata molto neanche dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale nonostante le roboanti promesse più volte fatte dall’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio che aveva preso a cuore le sorti della categoria definendola “il simbolo di una generazione abbandonata che non ha tutele”. Promesse concretizzate nel 2019 in una norma che in pratica legittimava il cottimo seppur in misura non prevalente: espressione talmente generica da autorizzare le aziende a fare più o meno ciò che volevano. Il testo è stato aggiustato prima della sua conversione in legge dall’erede di Di Maio, Nunzia Catalfo, e la norma tuttora in vigore prevede tutele differenziate: ai rider che svolgono la propria attività in maniera occasionale è assicurata una protezione base, come un compenso minimo orario e la copertura assicurativa. Ma a quelli che lavorano in via continuativa si applica l’articolo 2 del decreto legislativo numero 81 del 15 giugno 2015. È il decreto che attribuisce alle collaborazioni organizzate dal committente la stessa disciplina del lavoro subordinato e che è stato modificato ad hoc per abbracciare anche i lavoratori delle piattaforme.
Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili"
Questo almeno è quello che stabilisce il comma 1 della norma, poi però c’è il comma 2: l’inganno che non è necessario trovare al di fuori della legge perché è la legge stessa che lo prevede. Il comma 2 dice: "La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore". Insomma, per far crollare il castello di carte è sufficiente trovare un accordo collettivo con un’associazione sindacale rappresentativa.
E l’accordo è stato trovato, anche se con un sindacato poi giudicato non rappresentativo: fatto che allo stato dell’arte non sembra turbare le società. Post legge, le aziende hanno smesso di fare cartello, scegliendo di percorrere due vie opposte e parallele. La prima la seguono Deliveroo, FoodToGo, Glovo, SocialFood e Uber Eats. Riunite sotto l’ombrello di AssoDelivery, le cinque piattaforme hanno portato avanti il negoziato già segretamente in corso con Ugl rider, parte di Ugl. L’epilogo è stato un accordo che in molti hanno definito pirata e in cui i rider vengono inquadrati come lavoratori autonomi: un contratto che continua a essere applicato, nonostante abbia incassato più di una bocciatura da parte della magistratura.
Ugl rider e AssoDelivery (che riunisce Deliveroo, FoodToGo, Glovo, SocialFood E Uber Eats hanno siglato un accordo che in molti hanno definito pirata e in cui i rider vengono inquadrati come lavoratori autonomi
L’ultimo a pronunciarsi è stato il tribunale di Firenze che ha dichiarato Ugl rider non rappresentativa e discriminatori i privilegi che le sono stati concessi. Una decisione che prende in considerazione diversi elementi, come il fatto che l’accordo sia stato sottoscritto senza coinvolgere i lavoratori, e dopo una trattativa non pubblicizzata e parallela rispetto a quella in corso al ministero del Lavoro con gli altri sindacati, considerati invece rappresentativi. I giudici hanno anche preso di mira il modo in cui Deliveroo – destinataria del ricorso presentato da vari rami della Cgil (Filcams, Nidil e Filt) – ha comunicato ai propri fattorini la firma del contratto nazionale e cioè con un’email che non è stata preceduta da alcuna informazione né confronto con i sindacati, come previsto dalla legge, e che non ha dato ai rider molti margini di scelta: o accettavi o eri licenziato. L'accordo tra Ugl rider e AssoDelivery non tiene neanche conto dei criteri proposti dalla direttiva europea presentata lo scorso dicembre per dare più diritti ai lavoratori di piattaforma. In base alla direttiva, l'attuale modello di lavoro proposto dalle aziende di food delivery non può essere considerato autonomo.
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Storia a sé, quella di Just Eat. La piattaforma ha optato per un percorso che nel marzo del 2021 la vedrà firmare un accordo con Cgil, Cisl e Uil. È un percorso che non ha il suo unicum in Italia, ma risponde a un cambiamento del modello di affari su cui si basa Takeaway, la società che ha inglobato Just Eat. L’hanno chiamato modello Scoober ed è già applicato in altri 12 Paesi, dove i rider di Just Eat vengono assunti come dipendenti, però attenzione: non sempre dalla stessa Just Eat. In Gran Bretagna, per esempio, l’azienda ha affidato la gestione dei lavoratori a Randstad, un’agenzia interinale olandese con cui Takeaway collabora a livello globale.
Un tentativo di testare un’altra via per esternalizzare la propria forza lavoro e che per alcuni studiosi della materia – citati da Wired – ha uno scopo: esonerare le piattaforme della gig economy dalle responsabilità quando nascono dei problemi. Un altro timore l’ha espresso Alex Marshall, presidente dell’Independent workers of Great britain, sindacato britannico che rappresenta i rider delle principali piattaforme: la creazione di un sistema con diverse categorie di lavoratori, una sorta di doppio binario che permette alle imprese di food delivery di pubblicizzare il fatto di avere dei lavoratori dipendenti e allo stesso tempo di approfittare di una forza lavoro flessibile che non ha diritto né alle indennità né a un salario minimo.
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In Italia la questione non si è ancora posta: i primi seimila fattorini impiegati da Just Eat lo scorso anno sono tutti alle dipendenze di Takeaway express Italy, una società costituita apposta per l’occasione e interamente controllata dalla casa madre. Eppure, l’ipotesi che nel nostro Paese venga replicata la stessa strategia seguita nel Regno Unito non è poi così remota, anzi: secondo Wired Italia, presto le agenzie interinali si occuperanno di una parte delle assunzioni anche da noi. Non solo.
Nel 2018 il Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) per il settore trasporti, logistica e merci è stato aggiornato introducendo un livello destinato proprio ai rider, per cui sono state previste condizioni peggiori. Una sorta di declassamento che oggi permette a Just Eat non solo di bloccare per due anni lo stipendio dei propri ciclofattorini a otto euro e 50 lordi l’ora comprensivi di tredicesima e quattordicesima, anziché le oltre nove assicurate agli altri lavoratori del settore, ma anche di mantenere altre disparità rispetto al Ccnl base come non pagare il lavoro domenicale, o pagare di meno il lavoro supplementare, festivo e notturno.
Non è l’unica maniera in cui l’azienda starebbe risparmiando. Fin dall’inizio i sindacalisti SI Cobas hanno denunciato che la piattaforma non ha rispettato gli accordi che avrebbero dovuto garantire ai rider già al lavoro per loro un contratto con un numero di ore equivalente a quelle lavorate in precedenza. Invece ha stabilito le ore sulla base di parametri poco trasparenti e usato in modo spropositato contratti da dieci ore a settimana che consentono di guadagnare non più di 450 euro netti al mese. In pochi hanno ottenuto l’ambito contratto da 30 ore a settimana, e quindi uno stipendio mensile di circa 1300 euro, mentre non si ha notizia di rider assunti con un contratto da 40 ore. In compenso, la piattaforma starebbe chiedendo un sacco di supplementari.
"Just Eat continua a lasciare a carico del lavoratore il mezzo di trasporto, i costi a esso legati, e la sua manutenzione. I compensi mensili continuano a essere variabili, e i bonus basati su statistiche e performance continuino a essere usati" Enrico Francia - rider
"Inoltre – aggiunge Enrico Francia – l’azienda continua a lasciare a carico del lavoratore il mezzo di trasporto, i costi a esso legati, e la sua manutenzione. Di recente, l'azienda ha proposto di assegnare un incentivo di produttività da 500 euro al mese al rider più veloce della città. La proposta non è passata, ma è indicativa di come i compensi mensili continuino a essere variabili, e i bonus basati su statistiche e performance continuino a essere usati. Un altro problema riguarda il maltempo: di rado, il servizio viene sospeso e i rider sono costretti a lavorare anche durante gli acquazzoni, in condizioni rischiose. A Torino, gli ultimi infortuni si sono verificati proprio per questo". Compromessi al ribasso che, secondo Francia, i rider sono stati costretti ad accettare sotto ricatto aziendale: "O così, o torniamo a pagarvi a consegna". Dopo Di Maio e Catalfo, anche Andrea Orlando – intervistato da lavialibera – aveva assicurato di essere al lavoro per dare risposte ai rider. Un nulla di fatto: caduto il governo, ora si attendono le promesse del successivo.
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