25 agosto 2022, Beirut. I familiari delle vittime dell'esplosione al porto di Beirut ricordano i loro cari durante una protesta (Wael Hamzeh/Epa)
25 agosto 2022, Beirut. I familiari delle vittime dell'esplosione al porto di Beirut ricordano i loro cari durante una protesta (Wael Hamzeh/Epa)

In Libano la politica frena le indagini sull'esplosione al porto di Beirut

Il 4 agosto 2020, l'esplosione di centinaia di tonnellate di nitrato d'ammonio distrugge il porto di Beirut lasciando più di 200 morti. Due anni dopo, l'inchiesta è bloccata dalle ingerenze politiche e chi dovrebbe risponderne siede ai vertici dello Stato. I familiari delle vittime non si arrendono

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

13 dicembre 2022

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"La mafia politica protegge i criminali!": è il grido che si è levato dal porto di Beirut lo scorso 4 dicembre. A scandirlo sono i familiari di alcune delle centinaia di vittime dell'esplosione del 4 agosto 2020, che da allora si ritrovano di fronte alla statua dell'emigrante libanese il quarto giorno di ogni mese, con le fotografie dei loro cari sul petto. Di mesi ne sono passati 28, e altrettante le commemorazioni, ma sulle cause e le responsabilità del disastro aleggia ancora il mistero, mentre chi dovrebbe risponderne siede ai vertici dello Stato libanese impedendo che la giustizia faccia il suo corso. 

Sommario:

 

Esplosione al porto di Beirut, cosa è successo il 4 agosto 2020

Ghassan Hasrouty, morto nell'esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020, fotografato nel 2019 insieme alla nipote durante una manifestazione contro la corruzione
Ghassan Hasrouty, morto nell'esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020, fotografato nel 2019 insieme alla nipote durante una manifestazione contro la corruzione

Sono le 17.40 del 4 agosto 2020 quando un incendio scoppia nell’hangar 12 del porto di Beirut dove, accatastati accanto a carichi di fuochi d’artificio sequestrati e copertoni, erano stoccati da sei anni centinaia di sacchi di nitrato d’ammonio, un composto utilizzato per fabbricare fertilizzanti ed esplosivi. Mezz’ora più tardi, l’hangar salta in aria in una delle detonazioni non nucleari più potenti della storia. L’onda d’urto, avvertita fino a Cipro, distrugge l’intero porto e danneggia 77mila appartamenti nel raggio di diversi chilometri. Il bilancio è devastante: più di 200 morti - le cifre oscillano tra 215 e 244 -, oltre 6mila feriti e 300mila sfollati.

Al 66° posto sulla lista dei "martiri dell'esplosione" del ministero della Salute figura il nome di Ghassan Hasrouty. Aveva 59 anni ed era capo reparto ai silos di grano del porto, la cui struttura sventrata rimane in parte ancora in piedi, unico memoriale della tragedia. “Lavorava lì da trent’anni, come suo padre prima di lui”, racconta a lavialibera il figlio Elie, che ricorda: “Quel giorno mi trovavo nella mia casa in montagna, a 40 chilometri da Beirut. Poco dopo le 18 abbiamo sentito i muri tremare. All’inizio pensavo fosse un bombardamento, poi ha iniziato a circolare le notizia dell'esplosione. Ho subito chiamato mio padre, ma nulla. Speravo avesse trovato riparo in qualche angolo del silos, come faceva durante la guerra. Conosceva quel posto come fosse casa sua”. 

Quello che ha ucciso mio padre è un crimine contro l'intero popolo libanese. Finché non ci sarà giustizia, questo Paese non potrà ripartireElie Hasrouty - figlio di Ghassan, vittima dell'esplosione

A differenza della maggior parte delle vittime, i cui corpi sono stati rinvenuti e identificati nel giro di pochi giorni, di Ghassan non si sono avute notizie per due settimane. Sulla lista delle vittime, il suo è uno dei pochissimi nomi accanto al quale compare la nota “era tra i dispersi”. “Nei giorni successivi io, le mie sorelle e i miei cognati le abbiamo provate tutte per riuscire a trovarlo – continua Elie, con la voce ancora tremante –. Abbiamo lanciato appelli sui social e in televisione, contattato i suoi colleghi, girato tutti gli ospedali, abbiamo anche cercato di raggiungere il silos per aiutare i soccorritori, ma niente. In tutto questo, lo Stato ci ha lasciati completamente soli”. Il 18 agosto, la chiamata della polizia che comunicava il ritrovamento del corpo. 

Da allora, Elie visita scuole e università per tenere viva la memoria del disastro e far capire ai ragazzi che quello che è accaduto il 4 agosto “non riguarda solo le vittime e i loro familiari. È un crimine contro l’intero popolo libanese e finché non ci sarà giustizia questo Paese non potrà ripartire”. 

La battaglia dei portuali genovesi contro le navi della morte

La situazione oggi: la politica blocca le indagini sulle cause dell'esplosione

All’indomani dell’esplosione, il presidente della Repubblica Michel Aoun aveva promesso: “Condurremo un’inchiesta trasparente e puniremo pesantemente i responsabili”. Il governo aveva quindi affidato le indagini al giudice Fadi Sawan, noto per la sua indipendenza, qualità rara in un Paese in cui l’affiliazione religiosa e politica conta spesso più della competenza. In Libano convivono infatti diverse comunità religiose – le principali: musulmani sunniti e sciiti, cristiani maroniti e drusi –, ciascuna delle quali distribuisce favori, risorse e potere ai propri membri secondo logiche clientelari. Quando però il giudice ha iniziato a interessarsi alle eventuali responsabilità di alcuni tra i vertici dello Stato, sono iniziati i problemi. A febbraio 2021, accogliendo il ricorso presentato dall’ex ministro alle Finanze Ali Hassan Al-Khalil e quello ai Lavori pubblici Ghazi Zeaiter, entrambi indagati per negligenza, un tribunale aveva deciso di rimuovere Sawan, dubitando della sua imparzialità in quanto la sua casa era stata danneggiata dall’esplosione. Il dossier era quindi passato nelle mani del giudice Tarek Bitar, rispettato per le stesse qualità del predecessore. “All’inizio tutti erano con lui – spiega a lavialibera Nizar Saghieh, avvocato e fondatore della ong libanese Legal Agenda, impegnata nella promozione della giustizia sociale e dell’indipendenza della magistratura –. Quando però si è capito che non avrebbe mollato la presa sui responsabili politici, si è messa in moto una campagna di delegittimazione con l’obiettivo di sollevare anche lui dall’incarico”. 

La “fabbrica del sospetto”, come la definisce Saghieh, ha avuto successo: l’inchiesta è ferma da un anno, soprattutto a causa delle molteplici domande di ricusazione, tramite la quale una parte al processo può chiedere la sostituzione del giudice: “Abbiamo il record mondiale, finora ne sono state presentate almeno 40 – ironizza l’avvocato –. Il problema è che la legge libanese prevede che le indagini si fermino ogni volta che una domanda di ricusazione viene depositata, indipendentemente dalla solidità delle motivazioni”. A questo si aggiunge la paralisi dell’assemblea plenaria della Corte di cassazione, che dovrebbe pronunciarsi sul ricorso presentato dagli ex ministri Al-Khalil e Zeaiter, ma non può perché l’attuale ministro delle Finanze rifiuta di firmare il decreto di nomina dei nuovi membri che rimpiazzino quelli andati in pensione. “Il rischio è che questa pratica venga replicata anche in altri contesti, per esempio nei casi di presunta corruzione – continua Saghieh –. Questo non soltanto provoca la sospensione della giustizia, ma mina anche la fiducia nella magistratura: i giudici diventano gli accusati, mentre i veri imputati vengono marginalizzati dal dibattito pubblico, spesso con la complicità della stampa”.

Di recente, chi ha interesse a ostacolare l’indagine ha tentato anche un’altra strada: affiancare a Tarek Bitar un giudice sostituto, invocando i diritti dei 17 imputati tuttora in custodia cautelare, tra cui il direttore generale delle dogane, vicino al presidente Aoun. “Dicono ‘se Bitar è impossibilitato, c’è bisogno di un altro giudice che decida sulle loro domande di scarcerazione’ – spiega Saghieh –. In realtà, è un pretesto per liquidare l’indagine, affidandola a un magistrato vicino al potere”. Il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura si sono detti favorevoli, ma manca l’accordo sul nome del giudice. 

Droga e porti, la via del mare

Il mistero sul nitrato d'ammonio esploso al porto di Beirut

Il porto di Beirut quattro giorni dopo l'esplosione (foto: Bernard Khalil/Unione Europea, CC BY-NC-ND 2.0)
Il porto di Beirut quattro giorni dopo l'esplosione (foto: Bernard Khalil/Unione Europea, CC BY-NC-ND 2.0)

Tra le domande su cui le indagini si stavano concentrando e che ora rischiano di rimanere senza risposta, ce n’è una particolarmente delicata: perché quei sacchi di nitrato d’ammonio si trovavano da sei anni nell’hangar 12 del porto di Beirut? Dalle ricostruzioni è emerso che il materiale era stato prodotto dall’impresa chimica georgiana Rustavi Azot e acquistato dalla società Savaro Ltd, registrata in Regno Unito. A settembre del 2013 il carico – 2.755 tonnellate di nitrato d’ammonio – era partito dal porto di Batumi, in Georgia, a bordo della nave Rhosus, battente bandiera moldava, che avrebbe dovuto consegnarlo in Mozambico. Dopo aver fatto tappa in Turchia e in Grecia, la Rhosus aveva poi attraccato al porto di Beirut per caricare altre merci. Qui, le autorità libanesi avevano deciso di negare alla nave il permesso di lasciare il porto per difetti tecnici e per insolvenza nei confronti dei creditori, come emerge dai documenti raccolti nel portale online Beirut port explosion. I sacchi erano rimasti a bordo della nave, fino a quando, il 27 giugno 2014, un giudice ne aveva ordinato lo sbarco e lo spostamento “in un luogo appropriato”, temendo che la nave potesse affondare causando un disastro ambientale. Il 23 ottobre dello stesso anno, la Direzione della sicurezza generale aveva comunicato l’avvenuto spostamento del materiale nell’hangar 12 del porto, dove rimarrà fino all’esplosione del 4 agosto 2020 nonostante le obiezioni di alcuni funzionari rispetto alle condizioni di sicurezza.

Che ci sia stata negligenza è evidente. Ma diversi elementi alimentano l’ipotesi che l’esplosione sia l’incidente di percorso di un progetto criminale più ampio. Innanzitutto, la società che gestisce il porto di Beira, in Mozambico, dove il carico era diretto, ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna comunicazione riguardo all'arrivo previsto della nave, contrariamente alla prassi. Inoltre, nei sei anni e più in cui il carico è rimasto fermo al porto di Beirut, la Fabrica de Explosivos de Mozambique, destinataria del materiale, non ha mai cercato di recuperarlo. Il sospetto è che Beirut fosse la destinazione reale del nitrato d’ammonio e il Mozambico fosse una copertura.

Per nascondere cosa? Il giornalista libanese Firas Hatoum ha dimostrato in un’inchiesta televisiva i legami tra la Savaro Ltd e tre uomini d’affari russo-siriani sanzionati dagli Stati Uniti per aver sostenuto economicamente il regime di Damasco durante la guerra civile. Uno di questi, Mudalal Khuri, aveva tentato di procurarsi del nitrato d’ammonio pochi mesi prima che la Rhosus attraccasse a Beirut, ed è stato documentato che sia le forze di Bashar al-Assad sia i miliziani dello Stato Islamico hanno utilizzato questo composto per fabbricare esplosivi in Siria. I partiti-milizia sciiti libanesi Amal e Hezbollah, in prima linea nella campagna contro il giudice Bitar, hanno stretti legami con il regime di Assad e il secondo è impegnato attivamente sul territorio siriano al fianco delle forze governative. Ad alimentare i sospetti c’è poi un rapporto dell’Fbi di ottobre 2020, commissionato dal governo libanese, secondo cui al momento dell’esplosione nell’hangar 12 erano presenti solo 552 tonnellate di nitrato d’ammonio. Delle restanti 2.200, nessuna traccia. Interrogato sulla plausibilità della pista siriana, l’avvocato Saghieh non si sbilancia, ma dice: “È logico che chi tenta di bloccare la giustizia attiri verso di sé i sospetti”.

Familiari delle vittime di mafia: "Diritti, non benefici"

Giustizia per le vittime dell'esplosione e per tutto il Libano

“Se la giustizia sarà in grado di ridare fiducia alla gente, allora potrà diventare la pietra angolare di un nuovo Libano, finalmente riappacificato. Altrimenti, crollerà tutto"Melhem Khalaf - Deputato indipendente ed ex presidente dell’ordine degli avvocati di Beirut

Al di là delle ipotesi, resta da capire chi si nasconde dietro la Savaro Ltd e per conto di chi ha acquistato nel 2013 quelle 2.755 tonnellate di nitrato d’ammonio. Ad agosto del 2021, l’ordine degli avvocati di Beirut ha fatto causa alla società all’Alta corte di giustizia inglese accusandola di non aver perso le misure necessarie per “assicurare o smaltire correttamente il nitrato d’ammonio” e chiedendo che risarcisca le famiglie delle vittime. In parallelo, l’ordine ha chiesto e ottenuto lo stop alla sua liquidazione volontaria. Lo scorso giugno, la corte ha ordinato a Savaro di rivelare l’identità del proprio titolare effettivo, ingiunzione che la società non ha ancora soddisfatto.

Dietro a queste iniziative c’è Melhem Khalaf, ex presidente dell’ordine degli avvocati di Beirut, oggi deputato. Ricopre uno dei 13 seggi che i candidati indipendenti sono riusciti a strappare ai partiti tradizionali durante le elezioni legislative dello scorso maggio, sull’onda del movimento anticorruzione del 2019 e dell’indignazione per lo stallo delle indagini sull’esplosione. Da presidente dell’ordine, nei giorni successivi alla tragedia ha istituito una task force per assistere i familiari delle vittime e le persone coinvolte: “Abbiamo immediatamente disposto sette unità mobili, con duecento avvocati volontari, che hanno seguito e continuano a seguire le denunce di 1200 persone”, racconta a lavialibera l’onorevole. Da deputato, Khalaf si batte perché l’inchiesta del giudice Bitar possa andare avanti: “Abbiamo depositato due disegni di legge per impedire che l’abuso dei ricorsi blocchi continuamente le indagini e che le personalità politiche imputate si rifugino dietro l’immunità. La discussione non è stata ancora calendarizzata, ma sono fiducioso che si possa formare una maggioranza”. 

Sulla richiesta di aprire un’indagine internazionale, avanzata da diverse ong ed esperti delle Nazioni unite, Khalaf è scettico: “O si crea un tribunale speciale, ma è possibile solo per crimini di guerra o contro l’umanità, o si attiva la Corte penale internazionale, di cui però il Libano non ha firmato la convenzione. Nessuna strada è percorribile. E poi bisogna avere fiducia nella giustizia libanese”. Secondo l’onorevole, l’indagine potrebbe paradossalmente rivelarsi un’opportunità per il Paese che, schiacciato dal peso di un passato fatto di guerra e violenza politica, arranca di fronte alle sfide del presente: gli strascichi della pandemia, la crisi economica, l’insicurezza alimentare aggravata dalla distruzione del porto prima e dalla guerra in Ucraina poi. “Se la giustizia sarà in grado di ridare fiducia alla gente, allora potrà diventare la pietra angolare di un nuovo Libano, finalmente riappacificato. Altrimenti, crollerà tutto: alla lunga, l’ingiustizia porta alla rabbia, la rabbia all’odio e l’odio alla violenza”, scandisce Khalaf in tono grave. 

Di odio e violenza non c’è traccia nelle parole di Elie Hasrouty, che con l’ingiustizia fa i conti da più di due anni. La rabbia c’è, ma pacata, razionale, addomesticata dal tempo che è passato e dall’incrollabile fiducia nel popolo libanese che il padre Ghassan gli ha trasmesso. Anche lui, come l’onorevole Khalaf, è convinto che in gioco ci sia molto di più di una sentenza e del risarcimento delle vittime: “Abbiamo l’opportunità di innescare un cambiamento culturale. Se c’è stata l’esplosione è anche perché un operaio X al porto ha detto al collega di ignorare un documento che segnalava la pericolosità del materiale. Se non si sradica questa cultura della negligenza e dell’impunità, la morte è l’unica prospettiva per il nostro Paese”.

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