Una bambina salta la corda fatta di filo spinato, murales dell'artista Cakes Stencil su un muro in Palestina (Foto Jakob Rubner - Unsplash)
Una bambina salta la corda fatta di filo spinato, murales dell'artista Cakes Stencil su un muro in Palestina (Foto Jakob Rubner - Unsplash)

In Palestina il Covid accende un faro sui suicidi

In Cisgiordania, nei territori palestinesi, ai soliti coprifuoco e posti di blocco si aggiunge lockdown che aumenta il disagio psicologico. Crescono le telefonate a ong come Sawa che cercano di soccorrere chi vuole suicidarsi, ma resta un forte stigma sociale

Daniela Sala

Daniela SalaGiornalista freelance

18 marzo 2021

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Ohaila Shomar ormai sa, per esperienza, che le chiamate peggiori sono sempre quelle che arrivano di notte. Quando due ore dopo la mezzanotte risponde ad una delle 30 linee telefoniche del call center della ong Sawa, a chiamare, all’altro capo della linea, è una ragazza di 19 anni. Ha ingerito qualche decina pillole e solo un ripensamento all’ultimo l’ha spinta a chiamare il numero gratuito che in Palestina offre un pronto soccorso psicologico a chi tenta il suicidio.

Shomar, oltre a rispondere al telefono, è la direttrice di Sawa, un’organizzazione palestinese che offre supporto psicosociale telefonico e online. Con l’inizio della pandemia si è trovata a ricevere decine di chiamate simili. Insieme ai colleghi riesce a tenere la giovane donna al telefono per oltre un’ora e mezza. Lei si rifiuta di chiamare un’ambulanza, di andare in una clinica o di dire dove si trovi: non vuole che la sua famiglia, con cui vive, venga a sapere nulla. Si convince però a seguire i consigli del medico, a bere molta acqua e a cercare di vomitare. “I giorni seguenti ci ha chiamato di nuovo – racconta in una video chiamata Shomar –, le abbiamo spiegato tutti i meccanismi di sostegno, i centri di supporto psicosociale a cui può rivolgersi gratuitamente, ma ha preferito continuare con la consulenza telefonica da parte nostra. Deve essere lei a decidere quando sarà pronta per il passo successivo”.

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“La pandemia è stata un trauma, per tutti. E a livello psicologico sappiamo che spesso un nuovo trauma risveglia traumi passati”Ohaila Shomar - Direttrice ong Sawa

A luglio del 2020, quando è arrivata quella telefonata, la Cisgiordania era per la seconda volta in pieno lockdown: negozi chiusi, coprifuoco e check-point palestinesi all’uscita di ogni città, in aggiunta ai consueti posti di blocco israeliani. Dal momento in cui sono stati registrati i primi casi di Covid-19 a Betlemme, a marzo, Shomar si è subito organizzata insieme ai suoi colleghi per lavorare in “modalità emergenza”: “Da nove operatori che coprivano 16 ore al giorno, siamo passati a 17 operatori che rispondono 24 su 24, 7 giorni su 7 – spiega –. È stato con la guerra a Gaza nel 2008 che abbiamo imparato gli accorgimenti tecnici e l'importanza di attivarci subito per rispondere alle emergenze. E grazie alle varie esperienze che abbiamo accumulato negli anni, non è stato difficile adeguarci”.

Tra giugno e luglio Sawa, che offre supporto e consulenza non solo a chi tenta il suicidio ma anche a chi subisce violenza domestica, abusi o ha problemi legati alla salute mentale, ha registrato un aumento tra il 30 e il 35 per cento delle chiamate in entrata rispetto ai mesi precedenti: centinaia di chiamate ogni giorno, soprattutto da giovani e adolescenti.

“La pandemia è stata un trauma, per tutti. E a livello psicologico sappiamo che spesso un nuovo trauma risveglia traumi passati”, afferma Shomar. E tra i palestinesi, nati e cresciuti in un contesto di continua violenza politica, è difficile trovare chi non abbia traumi pregressi.

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I numeri ufficiali non raccontano tutto

A luglio del 2020, a poca distanza di tempo da quando Shomar ha risposto alla chiamata della giovane di 19 anni, una serie di eventi ha spinto l’ufficio Onu per per il coordinamento degli affari umanitari nei territori occupati (OCHA) a parlare di un'emergenza vera e propria. Secondo quanto ricostruito attraverso i social media, il suicidio a Gaza di un 23enne, studente universitario e tra i fondatori del movimento “Vogliamo vivere”, è stato seguito da altri tre suicidi e altri tre tentativi in meno di 24 ore, al punto che ne ha parlato anche il quotidiano israeliano Haaretz, in un commento a firma dell’attivista palestinese Muhammad Shehada.

Tra gennaio e luglio del 2020, sono 52 le persone che hanno contattato Sawa per un tentato suicidio. Nello stesso periodo dell’anno precedente solo 10. In tutto, nel 2020 56 uomini e 89 donne hanno chiamato Sawa a causa di un tentativo di togliersi la vita. “La questione del suicidio è come un iceberg. Se guardiamo solo ai numeri dei suicidi confermati, perdiamo di vista il grosso del fenomeno, tutti i tentativi quasi sempre precedono il gesto finale e tutti quelli che passano sotto silenzio a causa dello stigma”, spiega Virginie Mathieu-Tahboub, psicologa e consulente di salute mentale per la ong svizzera Médecins du monde (Mdm).

I numeri ufficiali diffusi dal Dipartimento di pianificazione e ricerca della Polizia palestinese registrano una media tra i 20 e i 30 suicidi all’anno. Ma una ricerca di Mdm pubblicata nel 2018, a cui ha partecipato anche Mathieu-Tahboub, registra un fenomeno ben più preoccupante: “Dal 2015 abbiamo registrato una crescita costante dei comportamenti autolesionisti e delle tendenze suicide – dice – per questo avevamo già iniziato a lavorare con il ministero della Salute e con altre ong per capire come arginare il fenomeno e come intercettare le persone più a rischio: quelle che hanno già tentato il suicidio”. L’Organizzazione mondiale della sanità, in un report pubblicato a novembre 2020, identifica tra le priorità proprio “la revisione delle linee guida sulla salute mentale e lo sviluppo di una strategia locale per la prevenzione dei suicidi”.

Il risultato è un training per il personale ospedaliero nei reparti di emergenza, avviato a novembre in cinque ospedali della Cisgiordania, tre a Hebron, uno a Beit Jala e uno a Gerico: “I dati che abbiamo raccolto mostrano che il 40 per cento delle persone che si sono suicidate erano state in precedenza soccorse almeno una volta in ospedale per un tentato suicidio – spiega Zaynab Hinnawi, psicologa e trainer nel progetto – ma i medici che le avevano soccorse non avevano riconosciuto il problema, oppure lo avevano ignorato”. Dimesse senza indicazioni tutte queste persone sono tornate a casa senza una rete di supporto: “Il ricovero in ospedale a causa di un tentato suicidio è spesso l’unica occasione che abbiamo di intercettare queste persone, e può essere la prima e unica occasione per loro di parlare del problema: non possiamo permetterci di sprecare questa opportunità”, conclude Hinnawi.

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Lo stigma che circonda il suicidio e la salute mentale

“Troppo spesso ho visto un tentato suicidio trasformarsi in un suicidio riuscito, se manca un intervento tempestivoSamah Jabr - Psichiatra, direttrice dipartimento Salute mentale del ministero palestinese della Salute

Samah Jabr è una delle pochissime psichiatre che lavorano in Cisgiordania, 23 in tutto per una popolazione di 2,5 milioni di persone, ed è direttrice del dipartimento di salute mentale del ministero della Salute palestinese. Insieme a Hinnawi sta seguendo il training negli ospedali. Un training, dice, indispensabile: “Troppo spesso ho visto un tentato suicidio trasformarsi in un suicidio riuscito, se manca un intervento tempestivo – racconta Jabr –. Ricordo il caso di un ragazzo arrivato in pronto soccorso con un avvelenamento da organofosfato (un composto che si trova in alcuni insetticidi, ndr). Era un caso molto difficile da trattare, ma i dottori lo hanno salvato quasi per miracolo. Tornato a casa, pochi giorni dopo il giovane si è impiccato”.

Uno dei problemi centrali, secondo Jabr, è lo stigma sociale che avvolge la questione, insieme al fatto che il tentato suicidio può in alcuni casi portare a problemi legali: tecnicamente infatti in Palestina, come del resto in altri paesi, è un reato. “Sulla carta – spiega Jabr –, la procedura prevede che un medico che riconosce un caso come tentato suicidio, debba informare la polizia, che dovrebbe poi aprire un procedimento penale, fermare la persona e interrogarla. Non so di nessuno che sia stato effettivamente incarcerato per questo, ma la polizia può comunque usare la cosa come strumento di pressione, e questo è un problema, in particolare, ad esempio, per le persone Lgbt+”.

Attraverso la formazione di medici e infermieri, l’obiettivo di Jabr e Hinnawi è cambiare il paradigma: “L’idea è che il personale medico di primo soccorso attivi un percorso di cura e di presa in carico, attraverso i centri di salute mentale locali. Mantenere la questione in ambito medico è liberatorio: allontana lo stigma e può salvare delle vite”. Tra i tanti effetti della pandemia, Jabr intanto è riuscita a coglierne uno positivo: “Il Covid ha risollevato l’attenzione per la salute mentale e ha permesso a diverse persone in Palestina di parlarne più apertamente perché ora possono dire, ad esempio, che hanno un problema di ansia o di psicosi a causa degli effetti della pandemia e del lockdown, poco importa che magari questi problemi fossero preesistenti. Ora possono usare un pretesto socialmente accettato”.

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