Murales dell'artista di strada Laika che raffigura Patrick George Zaki e Giulio Regeni. F. Frustaci/Ansa
Murales dell'artista di strada Laika che raffigura Patrick George Zaki e Giulio Regeni. F. Frustaci/Ansa

"Centinaia come Zaki e Regeni. L'Europa deve imporsi"

Intervista ad Aida Seif al Dawla, attivista egiziana impegnata nella cura delle vittime di tortura delle forze di sicurezza del Paese. "Con al-Sisi, la repressione delle voci critiche al regime è senza precedenti". Tra loro c'è Patrick Zaki, lo studente dell'università di Bologna, che è rimasto in carcere senza processo per 22 mesi . Non è isolata neanche la vicenda di Giulio Regeni: il ricercatore friulano ucciso cinque anni fa, per la cui morte in Italia sono indagati quattro agenti delle forze di sicurezza egiziane

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

Aggiornato il giorno 2 giugno 2021

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Aida Seif al Dawla è un’attivista egiziana che ha vissuto cinquant’anni di repressione. Ha partecipato alla prima manifestazione nel 1972. "Mio papà era un oppositore politico e si trovava in prigione per la seconda  volta", racconta. Erano gli anni del regime di Anwar al-Sadat, il movimento studentesco chiedeva più diritti, la liberazione degli oppositori politici e la democrazia. Sono le stesse rivendicazioni di oggi, ma se si obietta ad al Dawla che non molto sia cambiato, risponde: "Nulla è come allora". E se le si chiede come le istituzioni del Paese possano accettare la sistematica violazione dei diritti umani, accende una sigaretta e scoppia in una risata pulita: "Non esiste più alcuno stato di diritto. Migliaia di persone spariscono o sono arrestate senza ragione, prove, processo".

“Non esiste più alcuno stato di diritto. Migliaia di persone spariscono o vengono arrestate senza ragione, prove, processo”

La bacheca Facebook dell’attivista ne è una testimonianza: gli appelli per il ritrovamento e la liberazione di donne e uomini imprigionati perché critici verso il generale Abdel Fattah al-Sisi si susseguono post dopo post. Tra loro c’è Patrick Zaki: il giovane studente dell’università di Bologna, originario di Mansura, a 120 chilometri dal Cairo. Era tornato a casa per una vacanza in famiglia il 7 febbraio 2020, quando è stato fermato all’aeroporto della capitale e trattenuto. Ma, precisa al Dawla, "non è il primo e non sarà l'ultimo", così come non è isolata la vicenda di Giulio Regeni: il ricercatore friulano ucciso cinque anni fa, per la cui morte in Italia sono indagati quattro agenti delle forze di sicurezza egiziane. Un rapporto dell’associazione per i diritti umani Committee for justice mette in luce che dal 2013 – anno del colpo di Stato che ha portato al potere al-Sisi – al 2020 sono morte in cella 1.058 persone: 144 per tortura e 761 per mancanza di cure. Le sparizioni e le carcerazioni arbitrarie sono all’ordine del giorno: l’ultima riguarda il ventinovenne Ahmed Samir Abdelhai Ali, arrestato il primo febbraio scorso di rientro da Vienna, dove frequenta un master biennale della Central european university.

“Il regime vede con sospetto i giovani che studiano all'estero: lo considera un privilegio da punire”

La repressione assume forme anche meno cruente, come succede ad al Dawla che non può spostarsi al di fuori dell'Egitto per aver fondato il Nadeem center: un centro dedicato al supporto e alla riabilitazione delle vittime di tortura. La clinica potrà adesso riaprire dopo essere stata chiusa per quattro anni perché considerata un’organizzazione umanitaria in incognito e non un presidio sanitario. "Un giudice ci ha dato ragione, siamo contenti. Ma la battaglia non è finita. Sono tutt’ora accusata di diffondere notizie false e di ricevere finanziamenti per distruggere l’immagine dell’Egitto all’estero".

Cosa vi ha spinto a fondare il Nadeem center?
Era il 1993 e alcuni nostri amici erano appena usciti di prigione, dove li avevano torturati. Andarono in ospedale, chiesero ai medici di certificare gli abusi, ma i dottori si rifiutarono. Dalla fondazione al 2017 abbiamo aiutato quasi cinquemila persone. Pensavamo che avremmo avuto a che fare solo con oppositori politici, ma uno dei primi casi che abbiamo trattato è stato quello di un’anziana donna: i poliziotti l’avevano arrestata, picchiata e denudata perché non voleva cedere un terreno che si trovava tra due grandi appezzamenti. Così ci siamo resi conto che la tortura, pur essendo considerata un crimine dalla nostra Costituzione, era ed è praticata ogni giorno anche nei confronti di comuni cittadini e che si finisce in arresto anche per ragioni molto frivole.

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Qualche esempio?
Un ragazzo seduto a un bar è stato prelevato dagli agenti per via dei suoi dreadlock. L’hanno picchiato a morte. Ma le storie sono diverse, ciò che i protagonisti hanno in comune è la povertà, la marginalizzazione e nessun contatto potente.

Quali sono le torture più denunciate?
I pestaggi non sono considerati una forma di tortura, ma la norma. Iniziamo a parlare di torture quando ci raccontano di essere stati appesi a testa in giù, o soggetti a elettroshock. Le donne che non hanno mai fatto sesso subiscono perquisizioni anali, le altre vaginali. Ci sono, poi, torture psicologiche: vengono minacciati di morte, ma a preoccupare di più sono le ritorsioni nei confronti dei familiari.

“I killer di Regeni non saranno mai consegnati alla giustizia italiana. È un segnale che al-Sisi non si può permettere”

Sembra che tra il passato e il presente non ci sia differenza.
Invece è cambiato tutto. La differenza è sia quantitativa sia qualitativa: il numero di violazioni è aumentato vertiginosamente, al pari della loro brutalità. Le agenzie di sicurezza hanno assunto il controllo del Paese: hanno potere militare, economico e politico. È evidente dalla portata e dalla natura degli arresti, ma anche nel ruolo che svolgono durante le elezioni.

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Quale aspetto la preoccupa di più?
Il giro di vite sul movimento dei diritti umani è senza precedenti ed è molto pericoloso perché ha ricadute non solo sugli individui presi di mira ma per l’intera società, rischiando di eradicare qualsiasi forma di controllo sulle violazioni. Secondo alcune stime, oggi i prigionieri politici nelle carceri egiziane sono 60mila. Molti di loro non vengono processati, si trovano in custodia cautelare. Nel frattempo, la polizia avrebbe il compito di indagare sul caso in base alle accuse formalizzate dalla procura, di solito diffusione di notizie false e terrorismo. In pratica, non c'è alcuna indagine: la detenzione viene prolungata in modo del tutto arbitrario. La legge imporrebbe un limite di due anni a questa possibilità, ma neanche al termine del biennio è possibile tirare un respiro di sollievo: capita che i giudici stabiliscano la liberazione di un detenuto, ma poi a suo carico vengano formalizzate nuove accuse e la trafila ricominci. Come è successo a Ibrahim Ezz el-Din, ingegnere e attivista, del quale nel 2019 non abbiamo avute notizie per 167 giorni prima di scoprire che era stato arrestato. Lo scorso gennaio, poco prima che fosse rilasciato, l'Agenzia di sicurezza nazionale ha presentato una nuova accusa contro di lui.

Aida Seif al Dawla, attivista egiziana e co-fondatrice del Nadeem center, centro dedicato al supporto e alla riabilitazione delle vittime di tortura
Aida Seif al Dawla, attivista egiziana e co-fondatrice del Nadeem center, centro dedicato al supporto e alla riabilitazione delle vittime di tortura

C'è stato un momento che ha segnato il passaggio?
Sì, il massacro dei sostenitori dei Fratelli musulmani nel 2013. Molti hanno taciuto. In pochi hanno condannato, capendo che si trattava di un evento senza precedenti, che la repressione non sarebbe finita lì e avrebbe riguardato tutti.

A dicembre tre dirigenti dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), l’associazione per i diritti umani con cui collabora anche Zaki, sono stati rilasciati. Perché Zaki no?
È semplice: non vogliono. Il regime guarda con particolare sospetto i giovani che studiano all'estero: lo considera un privilegio da punire. Zaki non è stato il primo e non sarà l'ultimo. Quando i ragazzi che conosco partono, gli faccio sempre promettere di non tornare mai.

Che ne pensa del caso Regeni?
Dei responsabili possiamo non conoscere i nomi, ma non ho alcun dubbio che sia stato ucciso da agenti delle forze di sicurezza egiziane. Non sono la sola a pensarlo nonostante le tante bugie diffuse sulla sua morte, come quella secondo cui sarebbe stato ucciso perché invischiato in una tresca gay.

A gennaio al-Sisi ha deciso di rimuovere Tareq Ali Saber, uno dei generali sotto accusa per la morte di Regeni, dalla direzione dell’ufficio incaricato di monitorare ong, organizzazioni politiche e sindacati. L'ha messo a capo dell'ufficio che si occupa di certificati di nascita e carte d'identità. È un segnale positivo?
Non possiamo parlare di una rimozione. È vero che si trova in una posizione di minor prestigio e potere, ma è chiaro che il governo continua a proteggerlo. Responsabili e complici dell’omicidio Regeni non saranno mai consegnati alla giustizia italiana. Sarebbe un segnale che al-Sisi non può permettersi: fin dall’inizio ha promesso, implicitamente ed esplicitamente, appoggio e impunità alle agenzie di sicurezza egiziane in qualsiasi circostanza. Se facesse un’eccezione, distruggerebbe quest’immagine.

Covid-19 ha peggiorato la situazione?
Sì, sta avendo un effetto devastante sulle persone. Stando alle nostre stime, da marzo a dicembre, all'interno delle carceri, 52 detenuti sono morti per assenza di cure. A livello nazionale, non sappiamo a quanto ammonta il numero di deceduti per Covid-19. La pandemia non è una priorità di al-Sisi. E mentre negli ospedali i medici non sono dotati del materiale necessario per affrontare l'emergenza, il denaro pubblico continua a essere investito in grandi opere come la futura capitale d'Egitto che dovrebbe ospitare i principali uffici amministrativi del Paese. I dottori che hanno denunciato le lacune sono stati arrestati e accusati di diffondere notizie false.

Cosa può fare la società civile europea per migliorare la situazione?
Chiedere ai governi dell'Unione di essere coerenti. Tutti gli Stati proclamano di rispettare i diritti umani, definendoli una priorità. Ma nei fatti perseguono altri interessi: l'Egitto acquista i loro prodotti militari, blocca i flussi migratori e promette stabilità nell'area. Le raccomandazioni formali ad al-Sisi non hanno alcun seguito concreto. Così non cambierà nulla.

Sono passati dieci anni dalla rivoluzione egiziana. Quali erano gli ideali e quali sono state le promesse disattese?
Gli ideali erano ben sintetizzati negli slogan: pane, libertà, giustizia sociale e dignità umana. Quasi tutto è rimasto un sogno. La povertà è in crescita, qualsiasi forma di libertà è stata eliminata e la giustizia sociale non è nell'agenda del regime, il cui unico obiettivo è sopravvivere. Tuttavia, il ricordo della rivoluzione, la sensazione di essere liberi di riunirci, manifestare e cantare, rimangono vivi nella memoria di tutti coloro che in quei giorni sono scesi in piazza. Ogni anno quel giorno viene celebrato, nonostante le ripetute repressioni e i tentativi statali di istituire nella stessa data la giornata nazionale della polizia.

“L'Europa proclama il rispetto dei diritti umani, ma nei fatti in Egitto sta perseguendo altri interessi”

Nel riconoscimento dei diritti delle donne c'è stato, almeno, qualche passo avanti?
Le donne non sono diverse dagli uomini: i diritti di entrambi i sessi non sono rispettati. In più, nel loro caso, si aggiungono le ripercussioni sociali legate al genere: discriminazioni, giudizi morali e il sostentamento della famiglia, che grava soprattutto sulle quote rosa. Regime, media, istituzioni e religiosi sono conservatori. Alcune donne sono stata arrestate solo perché danzavano e ballavano su TikTok: le loro performance sono state giudicate offensive nei confronti dei valori della famiglia egiziana.

Secondo i sostenitori di al-Sisi l'Egitto non sarebbe pronto per una democrazia. È così?
Gli attivisti perseguitati, i giornalisti imprigionati, i lavoratori, gli studenti e i poveri che protestano e finiscono in arresto, ma anche coloro che non lo fanno per paura di ritorsioni, dimostrano che invece lo è. 

Grazie a Paola Nigrelli (Amnesty International), Monica Usai (Libera internazionale), e Leslie Piquemal (Cihrs)

Da lavialibera n° 7 2021

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