23 dicembre 2022
Quando si parla di narcotraffico, il Messico viene spesso evocato come esempio paradigmatico dello strapotere delle organizzazioni criminali e delle sue conseguenze sulla società, dalla violenza alla corruzione. Conosco bene questa realtà: da diciassette anni cerco di capirla e raccontarla attraverso indagini sul campo. Ho intervistato molti dei narcotrafficanti che oggi sono famosi grazie alle serie televisive diffuse da Netflix, ho parlato con i loro complici, le loro mogli, gli amici. Spesso, però, si tende a trascurare un elemento per nulla marginale, che è anzi la chiave per pensare un’azione di contrasto efficace: i cartelli della droga, come tutte le organizzazioni criminali, prosperano perché c’è chi li finanzia comprando ciò che offrono.
Messico. La politica cambia, la narcoguerra continua
Quello che ha portato il Paese a essere il trampolino del narcotraffico mondiale è un percorso storico complesso, che ha visto la complicità di chi oggi più di tutti ne lamenta gli effetti indesiderati: gli Stati Uniti. Il Messico è il terzo produttore di oppio al mondo, dopo l’Afghanistan e il Myanmar, e condivide una frontiera di oltre tremila chilometri con il vicino americano, storicamente tra i maggiori consumatori di droga al mondo. A partire dagli anni Cinquanta, questa collocazione strategica ha favorito l’emergere di piccole e medie bande criminali, che trasformavano l’oppio in eroina per poi trafficarla verso il mercato statunitense. Al tempo né le autorità Usa né quelle messicane avevano interesse a smantellare questa rete criminale. Al contrario, erano loro ad amministrare di fatto le organizzazioni e incassare le tangenti.
Il paese centramericano è tra i più corrotti e violenti, ma pochi si chiedono come fanno le droghe a entrare in tutti gli altri Stati
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