24 febbraio 2023
Sono già sei i suicidi avvenuti nel 2023 nelle carceri italiane. Un conteggio drammatico che rinnova quello dello scorso anno, quando si sono tolte la vita 85 persone – un numero senza precedenti – di cui 80 uomini e cinque donne, anche queste ultime mai così tante. Se ogni suicidio è un fatto a sé che richiama problemi individuali, tuttavia è possibile rintracciare un filo comune che lega questi atti alle questioni che il sistema penitenziario – e tutto il contesto che lo circonda, fatto di leggi, stigmatizzazione sociale, isolamento – vive o non sa affrontare.
Carcere, detenuti in semilibertà tornano a dormire in cella
Chi decide di suicidarsi in carcere, infatti, in molti casi è entrato da poco o è prossimo all’uscita. Un impatto con “il dentro” che spesso acutizza le fragilità che le persone si portano da fuori. Ma anche una preoccupazione per il ritorno in libertà, in una condizione di esclusione sociale che può spaventare. Come ha illustrato il Garante nazionale delle persone private della libertà personale in una sua recente relazione, delle 85 persone suicidatesi nel 2022, 50 si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione e, di queste, dieci nelle prime 24 ore dall’ingresso in carcere. Inoltre, 20 persone risultavano essere senza fissa dimora (un numero in aumento rispetto agli anni precedenti) ed è facile immaginare non con grandi prospettive una volta tornate in libertà.
Lo scorso mese di agosto – il più tragico dell’anno con 17 suicidi – Antigone ha pubblicato un report dove si raccontano alcune delle storie che siamo stati in grado di ricostruire. Una è quella di G.T., un ragazzo di 21 anni che, secondo il tribunale di Milano, in carcere non doveva proprio starci. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, a ottobre il giudice ha disposto il suo trasferimento in una Rems – Residenza per le misure di sicurezza – a causa di un disturbo borderline della personalità. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, il giovane si è tolto la vita, dopo che nelle settimane precedenti ci aveva già provato.
Delle 85 persone che si sono suicidate nel 2022, 50 si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione e, di queste, dieci nelle prime 24 ore dall’ingresso in carcere
Un’altra storia è quella di A.G., un ragazzo di 24 anni di origine brasiliana adottato in Italia, affetto da disturbi psichici e consumatore di sostanze stupefacenti. A fine agosto è stato arrestato a Torino dopo avere rapinato due supermercati, ma fino a quell’episodio non aveva alcun precedente penale. Dopo la convalida del fermo, il 24enne è stato trasportato al carcere Lorusso Cotugno in misura cautelare. Qui, nel reparto nuovi giunti, ha tentato una prima volta di uccidersi. Dopo un periodo trascorso nel reparto sanitario, gli psichiatri hanno valutato come “ridotto” il rischio suicidio e quindi il ragazzo è stato trasferito al reparto Sestantino, in cui sono reclusi i detenuti che necessitano di una osservazione psichiatrica, con le singole celle continuamente monitorate. Il 15 agosto, tredici giorni dopo il suo arresto, il ragazzo si è suicidato.
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Non molto diverse le storie di due delle cinque donne che si sono tolte la vita lo scorso anno. La prima, una 29enne, era arrivata due giorni prima al carcere di Messina. Si è suicidata in cella, dopo l'interrogatorio di garanzia davanti al gip avvenuto da remoto. Pare soffrisse di disagi psichici. A pochi chilometri di distanza, nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, una donna romena di 36 anni, da poco detenuta all’interno dell’Articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm) è stata ritrovata senza vita nel cortile dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria.
Questi casi accendono un riflettore su due temi: la tutela e la presa in carico del disagio psichico e i fattori di vulnerabilità che autolesionismo e tentativi di suicidi denunciano, ma non vengono sempre colti. Delle persone morte suicide lo scorso anno, 11 soffrivano di patologie di tipo psichico comprovate da certificazione psichiatrica, ma solo in tre casi l’evento si è verificato all’interno di sezioni destinate alla cura di tali patologie. In un caso, quello di G.T., la persona non doveva neanche essere in carcere. Le persone avrebbero bisogno di una presa in carico esterna, non essendo il carcere il luogo giusto per affrontare certi disturbi: la loro “pericolosità sociale” non è così elevata da giustificare la detenzione in un istituto di pena.
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Come riporta sempre il Garante nazionale, 68 persone (pari all’ 80 per cento del totale di chi si è tolto la vita nel 2022) erano coinvolte in altri eventi critici e di queste 28 (ossia il 33 per cento) avevano precedentemente tentato il suicidio (in sette casi più di una volta). Inoltre, dai dati del ministero della Giustizia emerge come gli episodi di autolesionismo siano stati negli ultimi anni in costante crescita, passando dai 9.586 del 2016 ai 13.069 del 2021 (24,3 per cento).
Ma dunque, come fare per prevenire i suicidi? Innanzitutto serve intervenire prima del carcere, che dovrebbe essere l’extrema ratio, puntando il più possibile sulle misure alternative. Questo riguarda specialmente quei detenuti fragili, che soffrono di patologie psichiche o sono dipendenti da sostanze che avrebbero bisogno di percorsi di cura e di una presa in carico che il carcere non riesce a garantire, anche a fronte del numero bassissimo di ore di supporto psicologico e psichiatrico offerte (nel 2022 la media era di dieci ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi). Intercettare questo disagio fuori, prima che deflagri dentro è importante.
I detenuti che soffrono di patologie psichiche o sono dipendenti da sostanze, avrebbero bisogno di percorsi di cura e di una presa in carico che il carcere non riesce a garantire
C’è poi il tema dei contatti con l’esterno, estremamente rarefatti. La disposizione che prevede dieci minuti di telefonate a settimana oggi non ha più nessuna giustificazione di carattere economico, organizzativo, securitario. In molti paesi europei non esistono questi limiti e in alcuni di essi i detenuti hanno perfino il telefono in cella. Potere mantenere un contatto costante con l’esterno può aiutare a scacciare pensieri suicidari nei momenti difficili. Non può essere un caso che la maggior parte delle morti avvengono in estate, quando anche le attività di volontariato o scolastiche si fermano. È allora che i detenuti restano soli e la solitudine li rende più fragili.
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