Aggiornato il giorno 11 agosto 2024
"Se lei fosse ministro dello sport, da dove comincerebbe?". Julio Velasco, argentino de La Plata, sorride sornione. È un maestro di sport, nel senso proprio dell’insegnarlo. Nel suo caso, ai massimi livelli: ha portato la nazionale italiana maschile di pallavolo sul tetto del mondo (tre ori europei, due mondiali, cinque World League) e quella che ha allenato è stata votata come “squadra del secolo”. Dal 2019 è stato commissario tecnico delle nazionali giovanili maschili della Federazione italiana pallavolo, negli ultimi anni ai vertici mondiali. Ora allena la nazionale femminile, che ha vinto l'oro alle Olimpiadi di Parigi 2024.
Lo avevamo incontrato il 21 marzo a Milano, in occasione della Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, al seminario La partita più bella: come lo sport può aiutare i giovani a diventare cittadini più consapevoli. "Se fossi ministro dello Sport? Per prima cosa mi dimetterei perché non è il mio mestiere. Comunque, è evidente che ci siano delle mancanze nella cultura sportiva, ma è anche vero che il nostro Paese non è un disastro e bisognerebbe dare ai giovani la consapevolezza di aver avuto una fortuna incredibile a nascere qui. A volte ci si dimentica che siamo una delle nazioni più ricche del mondo, dove la sanità è pubblica, a differenza degli Stati Uniti, e dove la scuola, nonostante tutti i difetti, è una buona scuola".
Una scuola dove però lo sport è una Cenerentola.
Il problema non è soltanto aumentare le ore di attività fisica e sportiva. Sono i programmi scolastici a essere antichi, i ragazzi non si divertono, si lancia una palla per farli giocare e basta. In più hanno troppi stimoli: lo studio, il corso di musica, quello di lingue. Molti non hanno il tempo per pensare e magari trovare la loro passione. Lasciamoli sperimentare, senza indirizzarli troppo. La ricerca della strada è parte del percorso.
Come li vede questi giovani di oggi?
È cambiato il mondo in cui vivono, ma i problemi sono gli stessi, stesse le inquietudini. È che, a differenza del passato, la vita è diventata una continua competizione. Noi uomini e donne di sport parliamo tanto di vincere perché la vittoria è il fine della nostra professione di agonisti. Ma lo sta diventando anche per gli altri. Se non sei performante, ti senti inadeguato.
Magari vogliono imitare i campioni, o no?
Perché ci deve essere solo un modello che è quello del campione, del fenomeno, del vincente? Dedicarsi alla competizione da professionisti non è piacevole. A volte si sta anche male. Prima di una gara hai le mani che sudano, il cuore a manetta, dormi poco. Facciamo questo perché ci piace, perché è passione, ma non siamo l’esempio di niente.
Quanto contano i social in questo?
Quando parlo ai giovani delle nazionali giovanili, ragazzi nati dal 2002 al 2008, non mi esprimo né a favore, né contro i social, perché sono una cosa di questa epoca. Ma faccio alcune semplici domande: perché ti interessa tanto l’opinione degli altri? Non basta quella degli amici che hai vicino? Ci importa tanto l’opinione di uno sconosciuto? La vita così è un inferno, è terribile.
Qual è allora il suo consiglio?
Raccomando ai più giovani di fare quello che piace. E se piace essere penultimi, ma facendo una cosa che ti fa stare tranquillo, nessuno ti deve giudicare. La vita non è una scala dove più arrivi in alto e più sei bravo. E il talento non è solo dei fuoriclasse, alla Maradona o Totti per capirci. Chi corre molto, marca stretto e ruba palla, non ha forse talento? Una squadra è fatta di complementarietà. Gestire un gruppo è capire che allenare è una forma di arte.
E alle società sportive che consigli dà?
"Un ragazzo di un settore giovanile del basket o della pallavolo fa una vita più dura di un professionista che, se la mattina non si allena, dorme. Il ragazzo va a scuola, segue le lezioni, magari fa lezioni di inglese e poi si allena. Si allenano o giocano sette giorni su sette. Lasciamoli un attimo respirare"Julio Velasco
Alle società propongo un modello per il settore giovanile che lasci agli atleti un giorno libero a metà settimana e un altro nel fine settimana perché se l’organismo non riesce a reggere l’intensità, si rompe o la abbassa. Non dimentichiamo che la scuola italiana è difficile, l’esame di maturità è un incubo e queste cose incidono sul sistema nervoso. Un ragazzo di un settore giovanile del basket o della pallavolo fa una vita più dura di un professionista che, se la mattina non si allena, dorme. Il ragazzo va a scuola, segue le lezioni, magari fa lezioni di inglese e poi si allena. Si allenano o giocano sette giorni su sette. Lasciamoli un attimo respirare e vedremo che avranno più voglia di allenarsi e di migliorare.
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Quanto è difficile mettere insieme le diversità?
Questa è l’arte di cui parlavo, non c’è un modo migliore di un altro. Credo che bisogna innanzitutto essere sé stessi. La tua autorità sul gruppo deve essere reale, credibile.
A proposito di autorità, non c’è il rischio di esagerare?
Oh, sì. Uno dei pericoli più grandi è che la gente cominci a credere che le opinioni diverse ci impediscono di fare le cose meglio. Non è così: semmai ci fanno lavorare qualche volta un po’ di più, ma alla fine i risultati sono sempre migliori. La sintesi tra più punti di vista ci fa sbagliare meno. Vale anche per me. Non voglio una linea unica ma la ricchezza delle opinioni di tutti, compresa quella dei giovani.
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