6 settembre 2023
Le profondità dell’oceano sono l’ultima frontiera della colonizzazione. Luoghi poco esplorati e in cui non arriva nemmeno la luce del sole, ma che contengono enormi ricchezze. Molti stati e imprese private fanno a gara per sfruttare i fondali marini e aggiudicarsi i loro tesori, ma come succede spesso in questo tipo di affari le conseguenze negative rischiano di essere sottovalutate o tralasciate.
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A migliaia di metri dalla superficie, appoggiati sopra il fango che ricopre le profondità, si celano minerali fondamentali per la transizione energetica: nichel, cobalto, rame e manganese. Sono i componenti essenziali delle batterie che alimentano i veicoli elettrici e di altre tecnologie “verdi”. Alcune zone degli oceani ne contengono quantità enormi e la loro estrazione porterebbe profitti miliardari, rischiando al contempo di provocare una catastrofe per gli ecosistemi meno conosciuti del pianeta.
La loro estrazione porterebbe profitti miliardari, ma metterebbe a rischio gli ecosistemi meno conosciuti del pianeta
Lo sfruttamento dei fondali preoccupa la comunità scientifica, il mondo dell’attivismo e molte nazioni. Secondo Anne-Sophie Roux – attivista della Sustainable Ocean Alliance e co-fondatrice del movimento #lookdown – “creerebbe danni irreversibili a tutta la vita marina, dagli abissi alla superficie”. I macchinari impiegati distruggono il fondale e creano una scia di sedimenti che può estendersi per centinaia di chilometri, soffocando la vita subacquea. Molte specie, alcune sconosciute, potrebbero scomparire. “Gli ecosistemi delle profondità sono meno studiati della superficie della Luna – continua Roux –, inoltre l’estrazione disturberebbe la capacità degli oceani di 'sequestrare' carbonio. Anche l’industria della pesca ne risentirebbe, con una perdita stimata superiore a 5 miliardi di dollari”.
Oggi il deep sea mining (estrazione nei mari profondi) non è ancora realtà, perché i fondali sono patrimonio comune dell'umanità. Ma presto le cose potrebbero cambiare
Oggi il Deep Sea Mining (Dsm, l'estrazione nei mari profondi) non è ancora realtà. Secondo la Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos), i fondali marini e le loro risorse sono “patrimonio comune dell’umanità”, ma ciò vale per ogni zona di mare oltre i 370 km dalle coste. L’autorità dell’Onu creata per amministrare questo patrimonio comune si chiama Isa (Autorità internazionale per i fondali marini) e spetta a lei decidere se procedere con l’estrazione dai fondali o meno, e secondo quali modalità.
Attualmente l’Isa sta lavorando alle norme ambientali per regolare le attività estrattive, che non potranno iniziare finché non saranno completate. Nel 2021 un gruppo di imprese minerarie ha però trovato una "scappatoia" nello statuto dell’organizzazione. Si chiama “regola dei due anni”. L’Isa avrebbe avuto due anni di tempo per terminare i lavori, altrimenti le imprese avrebbero potuto chiedere permessi di estrazione senza norme ambientali in vigore. Il tempo limite è scaduto il 9 luglio 2023. E le norme non sono ancora pronte.
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L’autorità dell’Onu creata per amministrare questo patrimonio comune si chiama Isa (autorità internazionale per i fondali marini). Spetta a lei decidere se procedere con l’estrazione dai fondali o meno
C’è la possibilità che l’estrazione cominci presto, ma un gruppo sempre più numeroso di nazioni sta cercando di scongiurare questa eventualità. “Sono 21 i governi che hanno chiesto all’Isa una pausa precauzionale, una moratoria o un divieto totale al Dsm”, riporta Roux. Tra questi, ci sono paesi europei come Spagna, Francia, Germania e Svezia. Alla richiesta di moratoria si sono aggiunti anche il parlamento europeo, l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), il Commissariato per i diritti umani dell’Onu, diverse popolazioni indigene, molte istituzioni finanziarie globali e alcune grandi imprese tecnologiche. Sul lato opposto della barricata troviamo Norvegia, Messico, Cina, Regno Unito e Nauru, oltre alle imprese minerarie che hanno invocato la regola dei due anni, prima fra tutte la canadese The Metals Company.
Dove si colloca l’Italia in questo dibattito? Più o meno nel mezzo. Roux ha incontrato la delegazione italiana durante l'ultima assemblea dell’Isa tenutasi in Giamaica nella seconda metà di luglio, e conferma che “la posizione dell’Italia è quella di sviluppare la conoscenza scientifica su cui poi possa basarsi un ambizioso regolamento ambientale”. Un tempo era più impegnata nella difesa degli oceani, oggi invece sostiene che non ci sono basi legali per chiedere una moratoria o un divieto del Dsm. Questa posizione è stata ribadita anche dal ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, che a maggio 2023 ha ricevuto in visita Michael Lodge, presidente dell’Isa molto criticato per le sue posizioni pro-estrazione. Lodge e Fratin si sono trovati d’accordo. Estrazione sì, ma regolamentata.
L'Italia ha una posizione ambigua: è a favore dell'estrazione, ma invoca un regolamento ambientale
Secondo Roux è improbabile che le attività minerarie comincino presto: “Durante l’ultima assemblea dell’Isa le imprese hanno provato a spingere per l’inizio imminente, ma non ce l’hanno fatta grazie all'opposizione di molti stati”. Non è stata affrontata la regola dei due anni, quindi le imprese potranno continuare a presentare domande di estrazione, che dovranno essere approvate dal Consiglio dell’Isa. Per il momento è difficile che avvenga, ma non impossibile.
In questo l’Italia ha un ruolo cruciale. Essendo membro del Consiglio dell’Isa dal 1996, le sue scelte saranno determinanti nel decidere il futuro del Dsm. “L’attuale posizione italiana la isola sempre più dai suoi partner europei, che invece chiedono una moratoria”, afferma Roux. Dovrebbe abbandonare l’ambiguità e prendere una posizione decisa contro queste attività. Le negoziazioni per il regolamento ambientale riprenderanno nel 2025. Secondo Roux, se l’Italia vuole seguire un approccio scientifico “il prossimo passo è aderire alla moratoria richiesta dagli stessi scienziati”.
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