Aggiornato il giorno 13 settembre 2023
Periferia sud di Roma. Via Monti è un vicolo cieco dove è difficile arrivare per caso. Al numero 99 l’ingresso è sbarrato da un cancello. Una scritta in sinogrammi "prega di chiudere in entrata e in uscita ". Oltre l’inferriata, si vedono solo decine di container blu. Il posto perfetto, o quasi, per scambiare inosservati borsoni zeppi di contante. È uno dei punti in cui la ’ndrangheta consegnava i soldi che servivano a comprare la droga per il mercato europeo e australiano. Banconote che, una volta in mano cinese, sparivano per poi ricomparire in Colombia, Ecuador e Belgio, nelle tasche dei narcos.
"Si fa fatica a monitorarlo ed è sempre più usato dalla criminalità organizzata non solo per fare acquisti oltreoceano, ma anche per riciclare i narco-proventi"Massimiliano D'Angelantonio - Comandante del II reparto del Ros dei Carabinieri
Li chiamano flying money, soldi volanti, dal cinese feich’ien. Si tratta di un sistema informale di trasferimento di valore nato in Cina ai tempi dei Tang, la dinastia che ha regnato dal 618 al 907 dopo Cristo, e in uso ancora oggi. La grande diaspora cinese in Italia, e non solo, se ne serve per spostare valuta da e verso la madrepatria. Una sorta di banca clandestina che negli ultimi anni potrebbe aver assunto nel nostro paese dimensioni sempre più grandi. Lo suggerisce la Direzione investigativa antimafia (Dia) nella prima relazione semestrale del 2020. Punto di partenza è il crollo delle rimesse inviate dagli immigrati cinesi che vivono e lavorano qui, monitorato dalla Banca d’Italia. Nel 2017 la quota ammontava a 136 milioni di euro, nel 2019 a 11 milioni. Un dato che, scrive la Dia, "appare indicativo dell’utilizzo di canali di trasferimento alternativi, più difficili da tracciare ".
Nel 2022 la situazione non è migliorata molto: l’ammontare delle somme dirette a Pechino è risalito di poco, raggiungendo i 23 milioni di euro. Di contro, le Fiamme gialle documentano un fioccare di partite Iva: 15mila quelle aperte nel solo Veneto tra il 2008 e il 2020, dichiarando nel 58 per cento dei casi reddito zero e nel 21 per cento un incasso inferiore ai seimila euro l’anno. Tante hanno il solo scopo di emettere fatture false per evadere il fisco. Durano pochi mesi e costituiscono l’altro asse fondante dell’economia sotterranea cinese.
Lo scorso anno l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif) ha segnalato 62 operazioni sospette facenti capo a una rete di 1600 soggetti, una rete che ha spostato risorse finanziarie verso la Repubblica popolare. Il resto lo fanno i soldi volanti. Il fenomeno preoccupa le forze dell’ordine perché "si fa fatica a monitorarlo ed è sempre più usato dalla criminalità organizzata non solo per fare acquisti oltreoceano, ma anche per riciclare i narco-proventi", spiega a lavialibera il colonnello Massimiliano D’Angelantonio, comandante del II reparto investigativo del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri. Fonti al lavoro sul tema per la procura europea (Eppo) parlano di eterogenesi dei fini: l’esigenza di movimentare grandi quantità di denaro ha sposato gli interessi dei narcos, che di liquidità pulita hanno sempre bisogno.
Così funziona l'Uif, l'autorità italiana antiriciclaggio
Le prime avvisaglie di un articolato canale di pagamenti e riciclaggio made in China risalgono al 2014, quando la polizia del Ticino e la Guardia di finanza scoprono che ad aiutare un gruppo di imprenditori italiani a evadere il fisco sono alcune persone di nazionalità cinese. Ma è a partire dal 2017 che anche le mafie hanno iniziato a sfruttare i loro servizi "in maniera massiva", dice D’Angelantonio, aggiungendo che "questa forma di intermediazione finanziaria mina l’intero sistema internazionale anti-riciclaggio fondato sul controllo e l’analisi delle transazioni bancarie".
Negli ultimi cinque anni si contano almeno sei investigazioni che hanno per protagonisti narcotrafficanti e cittadini della Repubblica popolare, deputati ai pagamenti. Anche l’indagine Eureka ha mostrato come per la ’ndrangheta sia ormai un meccanismo rodato, dal funzionamento molto semplice. Gli esponenti dei clan della Locride raccoglievano in Calabria i soldi incassati grazie alla vendita di cocaina. Poi si mettevano in viaggio fino a raggiungere il posto indicato per la consegna. Non solo a Roma, ma anche sulla strada tra Calabria e Belgio, a Maasmechelen e Genk, o in Campania, a Giuliano. Una volta arrivati, il cinese che si occupava dello scambio mostrava loro una banconota. Se il suo numero di serie coincideva con il numero che avevano ricevuto via chat, la transazione andava a buon fine.
I soldi, in genere un milione di euro alla volta, non si spostavano fisicamente dall’Italia. In maniera simile all’hawala, un metodo di pagamento popolare in Medio-Oriente, il feich’ien si basa sulla compensazione tra debiti e crediti. Questo significa che il denaro da dare ai narcotrafficanti era già a disposizione del nodo della rete presente nello Stato a cui era destinato. Così la vendita di droga serviva a ripagarne l’acquisto. In modo facile, veloce e senza lasciare tracce.
Secondo i magistrati del tribunale di Reggio Calabria, sfruttando questa tecnica, in meno di quattro mesi i gruppi di San Luca avrebbero movimentato ben 11 milioni e 711mila euro. Con otto viaggi realizzati tra fine agosto e fine novembre del 2020. Quei milioni erano frutto della commercializzazione di 500 chili di cocaina arrivati nel porto di Gioia Tauro il 14 agosto dello stesso anno, 425 dei quali distribuiti dal gruppo dei Fracascia-Nardo-Leuzzi. Mentre i pagamenti avevano come destinatari finali una formazione paramilitare attiva nel dipartimento di Antioquia – la potente organizzazione narco-terroristica del clan del Golfo – e Lucio Aquino.
Proprio quest’ultimo, accusato di aver gestito l’articolazione belga dell’associazione, teneva i rapporti con i cinesi, organizzando gli appuntamenti. Sempre Aquino si era occupato della trattativa con un altro cinese, con referenti a Dubai, conosciuto come signor Green. Contattato per "mandare i soldi per i canguri", cioè per comprare in Ecuador la cocaina da importare in Australia, Green aveva assicurato la consegna di oltre 150mila euro. Tutto in un giorno. Costo delle operazioni: una percentuale compresa tra il 15 e il 16 per cento della somma di volta in volta trasferita.
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"Ti arriva il cinese. Gli dai l’appuntamento in albergo e ti porta i soldi"Luciano Camporesi a Domenico Pelle
Appena il 6 per cento chiedevano, invece, due uomini nati nella provincia orientale della Cina coinvolti nell’operazione Aspromonte Emiliano, condotta dalla Guardia di finanza e dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna. Nell’ambito dell’indagine, le forze dell’ordine hanno ricostruito cinque episodi di riciclaggio, grazie a cui sono stati ripuliti in Emilia quasi tre milioni di euro. A beneficiarne, Giuseppe Romeo, detto "Maluferru". Non uno qualsiasi, ma il nipote di Sebastiano Romeo, capo storico della ’ndrina di San Luca. Un broker che per gli inquirenti era in grado di movimentare centinaia di chili di droga al mese e per cui la ripulitura del denaro sporco rappresentava un "momento cruciale ", si legge nell’ordinanza.
I cinesi erano un punto di riferimento. E la loro capacità di far materializzare qualsiasi cifra ovunque, nota a tutti gli intranei del clan. A Hong Kong, come in Italia, Spagna e Olanda "non è un problema", spiegava Luciano Camporesi a Domenico Pelle, entrambi considerati narcos di calibro internazionale: "Ti arriva il cinese. Gli dai l’appuntamento in albergo e ti porta i soldi". I "bancomat", li chiamavano. In realtà, i ganci nella Repubblica popolare di Romeo erano già saltati fuori con l’operazione Pollino-European ’ndrangheta connection del 2018. L’ipotesi investigativa era che la compagna del fratello Domenico, originaria della Cina ma residente ad Anversa, e una sua parente avessero introdotto il broker a un "sistema informale di trasferimento del denaro con metodo simile all’hawala".
Il feich’ien, appunto. L’indagine Aspromonte Emiliano di maggio scorso ha aggiunto dei tasselli, individuando due dei "bancomat" di Romeo. Uno di loro abitava a Casalecchio, in provincia di Bologna, e andava sempre in giro con uno zainetto blu. A tutti era noto come Luca, un’italianizzazione del suo nome: Chunjian Jiang. Quarantotto anni, titolare di diverse sale slot e socio di un’impresa che sviluppa software per l’internet delle cose, Jiang e la moglie offrivano alla ’ndrina un servizio completo: andavano a prendere il contante in provincia di Reggio Emilia, trasferendolo prima in provincia di Verona e poi in altre località.
In seconda battuta, si occupavano di mascherarne la provenienza con il sistema del fei-ch’ien per restituire a Romeo e soci la stessa cifra, ma non più legata alla vendita della cocaina. Secondo il giudice per le indagini preliminari Alberto Gamberini, Jiang sapeva da dove arrivavano i soldi. Michele Vidoni, tenente colonnello della Guardia di finanza, aggiunge che quando è stato fermato Jiang era ancora operativo. Durante la perquisizione, gli hanno trovato 133mila euro in contanti. "Non era un lupo solitario – dice Vidoni –, faceva avanti e indietro da Milano, dove consegnava i soldi raccolti a dei connazionali. C’era un’organizzazione dietro"
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