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Djobel, il villaggio sommerso dal mare, simbolo del cambiamento climatico

In Guinea-Bissau l'innalzamento del livello del mare e gli alberi di anacardio stanno alimentando conflitti tra tribù

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

6 novembre 2023

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Una volta era un villaggio, oggi quasi ogni capanna è un’isola che si può raggiungere solo a bordo di piroga, una piccola barca scavata nel legno. Djobel è diventato un simbolo del cambiamento climatico in Guinea-Bissau. Il Paese è il quarto stato al mondo più vulnerabile all’innalzamento del livello del mare. Lo si intuisce guardando una mappa: non una montagna, né un’altura, solo un grande piano. Lo suggeriscono le statistiche degli organismi internazionali. Lo confermano gli abitanti di Djobel che negli ultimi anni hanno man mano visto sommergere le loro case. Non sono stati i soli. Dal 2015, oltre 170mila guineensi sono stati danneggiati dalle alluvioni che, si calcola, hanno distrutto l’otto per cento della produzione totale di riso. L’erosione costale e l’aumento del livello del mare stanno via via deteriorando le distese di bolanhas, le risaie di mangrovia, gioiello dei contadini del paese.

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Il riscaldamento globale ha trasformato anche il calendario agricolo, dice Giovanni Maucieri, responsabile paese dell’Associazione internazionali volontari laici (Lvia), organizzazione impegnata nel contrasto alla povertà: "Prima la pioggia era regolare. Gli agricoltori sapevano quando inseminare i vivai e poi trapiantare. Il ciclo era ben definito. Adesso non piove per mesi e poi ricomincia, con acquazzoni torrenziali. La differenza è percepibile". 

La marea si alza così in fretta che lasciare i bambini da soli in casa, per andare nei campi, può avere conseguenze mortali. "Tanti sono annegati", racconta Ines Djisselen

La situazione è destinata a peggiorare. Un rapporto del Programma alimentare mondiale, l’agenzia delle Nazioni unite che lotta contro la fame e la malnutrizione, stima che in futuro le temperature medie della Guinea Bissau aumenteranno ancora, mentre le precipitazioni saranno più irregolari e imprevedibili. Il settore agricolo verrà compromesso in modo permanente da terre sempre più salmastre, se non sommerse.

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Ci provano a resistere, gli abitanti di Djobel. La strada che porta al villaggio è chiusa da una palizzata. Si prosegue a piedi e poi a bordo di un piroscafo che fa slalom tra le mangrovie. L’acqua è un catino bollente e la terra coperta da una distesa di conchiglie taglia-piedi. Le stime riportano che qui vivono oltre 250 persone. Non hanno acqua potabile: la raccolgono quando piove in sacchetti di plastica appesi alle capanne, di fango ed erba, e non hanno ospedali. Vivono di pesca e di riso, almeno quel poco che ancora riescono a coltivare. "Abbiamo costruito una nuova diga, ma non sappiamo quanto resisterà, le mareggiate dello scorso anno l’hanno già inondata", dice il capo del villaggio, Bassiro Nango. La marea si alza così in fretta che lasciare i bambini da soli in casa, per andare nei campi, può avere conseguenze mortali. "Tanti sono annegati", racconta Ines Djisselen, 29 anni, al lavoro nel suo quadrato di risaia. E aggiunge: "La capanna di mio fratello è stata distrutta. L’acqua si sta prendendo tutto. Siamo costretti ad andare via". 

La migrazione forzata è all’origine di un conflitto con una tribù vicina, Arame. Sua la porzione di terra che il governo ha assegnato agli sfollati. Per Arame, però, Djobel ha sconfinato rispetto alla porzione di territorio che gli è stata assegnata, distruggendo il loro bene più prezioso: le piantagioni di caju. È una guerra che va avanti da anni, con morti e feriti. Sia il cambiamento climatico che gli alberi di anacardi hanno un ruolo centrale nella storia, spiega Issa Indjai, coordinatore locale di Mani Tese: "Il sito concesso a Djobel si trova di fianco alle terre contese da un’altra tribù, Elia. Una comunità che coltivava riso di mangrovie, ma in tempi recenti si è convertita agli anacardi". Il motivo? "L’innalzamento del mare, che ha distrutto le paludi e salinizzato il suolo", conclude Indjai.

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