Anacardi, aperitivo a spese della biodiversità

In meno di vent'anni la Guinea-Bissau è diventata uno dei principali produttori al mondo. Ma l'espansione delle coltivazioni distrugge le foreste e rende i contadini schiavi della domanda internazionale. Il reportage

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

6 novembre 2023

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BISSAU - "Tutti dicono che gli anacardi sono il nostro petrolio, io credo siano il nostro inferno". Costantino Correia, ingegnere agronomo, ex capo dell’agenzia forestale della Guinea-Bissau, da vent’anni lotta contro la deforestazione. Non è mai stato semplice. La Guinea-Bissau è una delle nazioni più povere del mondo e l’85 per cento della popolazione vive d’agricoltura: disboscare vuol dire sopravvivere. Oggi "resta poco tempo, dieci anni al massimo, per salvare la biodiversità da un danno irreversibile". Stipato in uno stanzino dalle pareti chiazzate di muffa, Correia mostra le foto di decine di ettari di vegetazione incendiati.

Prima si piantava solo riso, sfruttando il suolo per qualche anno per poi dare alla terra il tempo di rigenerarsi. "Ora – precisa l’agronomo – al riso si affianca il caju, l’albero di anacardio. Un cambiamento permanente". In meno di vent’anni la Guinea-Bissau è diventata uno dei più importanti produttori di anacardi del mondo. Ma le coltivazioni sono aumentate a spese delle foreste. E i contadini hanno continuato a incassare la quota più piccola del grande business: lo 0,004 per cento del valore che il prodotto ha nei nostri supermercati. 

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Il doppio impatto ambientale degli anacardi, ignorato dall’Ue

Lo troviamo nelle ciotole dell’aperitivo, nel sushi, nelle barrette e in alcuni prodotti pronti, come il pesto, dove ha sostituito i pinoli, più costosi. Spinto dalle diete salutiste e vegetariane, questo frutto secco ha conquistato i mercati occidentali in tempi record. I dati Eurostat confermano che in Europa è boom: in dieci anni le importazioni sono aumentate di oltre il 110 per cento schizzando dalle 71mila tonnellate del 2012 alle 151mila del 2022. L’Italia è il quarto consumatore, dopo Germania, Olanda e Francia. L’offerta ha cercato di reggere il passo. Su scala globale, nel 1988 gli ettari coltivati ad anacardio erano poco più di un milione. Nel 2020, la cifra è salita a 7,1 milioni. 

Biai, ex direttore dell’Instituto da biodiversidade e das àreas protegidas: “Le piantagioni stanno sostituendo le foreste native a ritmi preoccupanti”

Quasi metà della produzione si concentra in Africa occidentale. Mentre a sgusciare e pulire la noce, che contiene un liquido corrosivo per la pelle, sono fabbriche asiatiche, dove avviene l’87,5 per cento della lavorazione. Una volta lavorati, o semilavorati, gli anacardi ripartono per l’Europa. Ma ogni viaggio inquina. Nel giugno del 2022, uno studio dell’università di Sydney ha stimato che l’impatto ambientale del trasporto del cibo consumato rappresenta il sette per cento delle emissioni globali. L’espansione incontrollata delle piantagioni, invece, sta contribuendo al disboscamento dei paesi di origine della materia prima, al pari di cacao e caffè. Monocolture che – a differenza degli anacardi – stanno ormai crescendo a ritmi più lenti. 

Un’evoluzione di cui l’Unione europea sembra non tenere conto. La nuova legge contro la deforestazione, che ha avuto l’ok definitivo a maggio 2023, chiede alle compagnie che lavorano nell’Ue di implementare dei rigidi meccanismi di controllo e verifica su alcuni beni in entrata e in uscita. Il fine è garantire che ciò che è importato o esportato dall’Europa non sia stato realizzato su un terreno soggetto a deforestazione, o a degrado forestale, dopo il 31 dicembre del 2020. Per ora gli obblighi valgono solo per chi lavora con olio di palma, bestiame, caffè, cacao, legname, soia e gomma, derivati inclusi. La norma prevede una revisione periodica dei beni da sorvegliare, ma rischia di arrivare tardi. 

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Joana Capela, del centro di ricerca in biodiversità e risorse genetiche Cibio, con sede in Portogallo, spiega: "La legge non riesce a essere preventiva. Si limita a reagire a un fenomeno già consolidato. La lista dei prodotti regolati è stabilita sulla base di dati vecchi, non fotografa la situazione corrente. Quando sarà aggiornata, guarderà sempre al passato. Intanto le foreste dei paesi tropicali saranno state distrutte per fare spazio agli anacardi". 

Una coltura d’importazione, diventata vitale

La Guinea-Bissau lo dimostra. Con i suoi 36mila chilometri quadrati, è uno dei paesi più piccoli dell’Africa. Ma è abitato da centinaia di specie di animali e piante. Merito del caldo canicolare che soffia dal Sahel, a nord, e il clima tropicale, che spinge da sud. È in questo concentrato di biodiversità che il caju ha rosicchiato terreno. Oggi rappresenta il 90 per cento delle esportazioni del paese, dà da vivere al 70 per cento della sua popolazione, e copre la quota più alta di superficie coltivata, superando il riso: l’alimento base. 

Eppure, l’albero di anacardio ha in Guinea-Bissau una storia recente. Sono stati i portoghesi a importarlo, intuendone le potenzialità commerciali. Negli anni Sessanta venne anche inserito in un programma di riforestazione: era suggerito ai contadini per rifertilizzare i suoli, impoveriti dalle coltivazioni di arachidi. "È diventato un problema quando ha cominciato ad avere un valore economico", dice Justino Biai, ex direttore dell’Instituto da biodiversidade e das àreas protegidas (Ibap), un ente nazionale creato nel 2004 per preservare i diversi ecosistemi del paese. I governi che si sono susseguiti dopo l’indipendenza dal Portogallo hanno puntato sul caju come prodotto d’esportazione, favorendone il baratto col riso importato a basso costo. L’impennata della domanda all’estero, la speranza di fare soldi facili, e le poche opportunità di crescita in un contesto segnato dall’instabilità politica alimentata dal traffico internazionale di droga, hanno fatto il resto. Il Paese è passato dalle 135mila tonnellate di anacardi esportate nel 2012 alle 200mila del 2020. "Piantare caju è il piano di tutti", ammette Jean Gomes, un contadino di 33 anni. 

Le piantagioni aumentano, foreste e biodiversità diminuiscono

La monocoltura ha già trasformato grandi parti del territorio, rendendo omogeneo un paesaggio altrimenti caratterizzato da un complesso mosaico: foreste, campi arati e maggese. Lo si nota soprattutto nelle regioni di Biombo e Oio, dove gli alberi di anacardio sono tanto fitti da formare un bosco. Ma è nel nord e nel sud del paese che le coltivazioni si stanno espandendo anche nelle aree protette. Qui per Biai "le piantagioni stanno sostituendo le foreste native a ritmi preoccupanti". Difficile quantificare con esattezza l’impatto. Il governo non raccoglie dati. L’ultima stima ufficiale sull’estensione dell’area forestale dello stato risale al 1985. Ma Biai racconta che nei parchi di Cacheu e di Cantanhez sono state fatte alcune analisi per stabilire quanta anidride carbonica fosse in grado di assorbire la foresta. Mentre nel 2011 i risultati erano stati positivi, dieci anni dopo la foresta anziché assorbire anidride carbonica, la emetteva. "Il caju è il principale responsabile", commenta Biai. Un’affermazione che trova parziale, e ufficiosa, conferma in una ricerca pubblicata a novembre 2020 sul Brazilian journal of environmental science. Per l’analisi, all’espansione delle piantagioni di anacardi può essere attribuito l’89 per cento del disboscamento delle foreste native avvenuto in Guinea-Bissau tra il 2002 e il 2017.

Un disboscamento che sconvolge anche l’habitat degli animali. Nove ricerche condotte in Nigeria, India e Guinea-Bissau suggeriscono che i frutteti di caju possono ridurre la ricchezza delle specie di funghi, farfalle, uccelli e altri mammiferi terrestri presenti in un determinato ecosistema dal quattro all’89 per cento. Per l’associazione Dedos unidos Colibuia, una delle poche realtà locali impegnate nella salvaguardia dell’ambiente, il caju ha "ridotto in modo drastico il numero di elefanti, bufali e gazzelle presenti nella zona", dice Bocar Seidi, uno dei fondatori dell’organizzazione. Siamo nella regione di Tombali, al confine con la Guinea. L’area ospita il parco di Cantanhez, un corridoio faunistico transfrontaliero e una delle rimanenti foreste subumide dell’Africa, identificata dal World wide fund for nature come una delle più importanti 200 ecoregioni del mondo. Seidi è stato più volte minacciato di morte dalle comunità che abitano la zona. Spiega: "Preferiscono distruggere tutta la natura per piantare nuovi anacardi".

Dipendenti dal mercato

Percorrere la Guinea-Bissau non è semplice, soprattutto durante la stagione delle piogge. L’acqua torrenziale trasforma le strade in una voragine di terra rosso mattone che inghiotte l’asfalto fino a farlo sparire. Intorno c’è la natura che esplode: mangrovie dalle intricate geometrie e termitai tanto grandi da sembrare cattedrali. Sullo sfondo, i villaggi. Da qualche anno le case non hanno più il tetto di paglia, ma di zinco. Ci sono piccoli pannelli solari, per l’elettricità, e moto da cross per spostarsi nei campi. È la ricchezza portata dal caju, spiegano.

Il produttore della materia prima riceve lo 0,004 per cento del prezzo con cui l’anacardo è venduto nei nostri supermercati

In realtà la Guinea-Bissau continua a ricevere la fetta più piccola del grande business degli anacardi. Il Paese sguscia solo il cinque per cento del seme di caju che produce. Il resto lo esporta come materia prima, lasciando agli acquirenti indiani e vietnamiti, che lavorano il prodotto per poi rivenderlo, il potere di stabilirne il prezzo. In teoria, a inizio di ogni campagna, il governo fissa una tariffa minima, che però nei fatti a fine stagione non è mai rispettata. José Formoso Vàz, un coltivatore, racconta di essersi appena indebitato: "Ho barattato il cemento che mi serviva per finire i lavori di casa, ma poi il valore di un chilo di anacardi è sceso di oltre la metà". "Il mercato è più forte", ammette a lavialibera lo stesso ministro dell’agricoltura Mamadu Saliu Lamba. Nel 2021, per esempio, un agricoltore guineense ha incassato circa 60 centesimi di euro per un chilo di noci di caju. La stessa quantità di anacardi sgusciati è stata importata dall’Unione europea a un prezzo medio di 13 euro: oltre il 2000 per cento in più. In altri termini, il contadino ha ricevuto lo 0,002 per cento del valore che il prodotto finito ha nel vecchio continente. E lo 0,004 per cento del prezzo di uno snack di anacardi comprato al supermercato.

Nel Paese, la monocoltura del caju ha segnato il passaggio da un’agricoltura di sussistenza a una da reddito, in cui tutto il prodotto è venduto, o quasi. La transizione ha migliorato in modo percepibile la vita quotidiana dei contadini. Ma li ha anche resi più vulnerabili alla malnutrizione e legato a doppio filo tutta la loro economia alla domanda internazionale. Il problema lo espone Celestino Fernando, coordinatore tecnico di Ressan-Gb, un’associazione che promuove la sicurezza alimentare in Guinea-Bissau: "I terreni un tempo sfruttati per la coltura di diversi cereali, tuberi, arachidi e alberi da frutto, ora vengono usati per coltivare il caju". Di contro, la produzione di riso, anche se cresciuta, non è riuscita a tenere il passo con le esigenze della popolazione, anch’essa in aumento.

Lo Stato importa circa il 70 per cento del riso necessario al fabbisogno interno. Nel 2012 la percentuale si fermava al 40. "Se mettiamo in scala i dati sulla produzione di anacardi e quelli sulla produzione e sull’importazione di riso, è facile rendersi conto che siamo sull’orlo di una catastrofe", dice Elisabete Dumbia, ex consulente dell’organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), e ora analista del programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Undp). 

La stortura – conclude Dumbia – è che "anziché coltivare riso, i contadini piantano anacardi da scambiare con il riso".

Questo reportage è stato realizzato per conto di Mani Tese ONG nell’ambito del progetto “Food Wave” cofinanziato dalla Commissione Europea e coordinato dal Comune di Milano. Sul sito di Mani Tese trovi il dossier completo

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