21 dicembre 2023
Cuneese, militante No Tav, laureato in filosofia (con Maurizio Ferraris), 43 anni e un posto da ricercatore. Grasso parla con voce lenta, seguendo il filo di un ragionamento. Nel 2016 si è arruolato nelle Unità di protezione popolare (Ypg) curde per difendere dagli attacchi dello Stato islamico il modello di società, egualitario e femminista, che il movimento ispirato al pensiero di Abdullah Öcalan stava sperimentando nel Kurdistan siriano. La sua vita è stata stravolta dalla guerra, ma Grasso continua a ritenerla necessaria. In alcune circostanze. Ha raccontato tutto nel libro, Hevalen, perché sono andato a combattere l’Isis in Siria. Dice sorridendo che oggi, a quel titolo, aggiungerebbe un punto interrogativo finale.
Guerra, la storia non ci insegna nulla
Grasso, perché un piemontese decide di andare a combattere in Siria?
Ho maturato la decisione dopo la strage al Bataclan del novembre 2015. Conoscevo bene i luoghi degli attentati, le persone, il genere di musica che si suonava quella sera. Gli attentatori non hanno colpito i quartieri ricchi e i luoghi del potere, ma quelli popolati da un’umanità solidale, precaria e con stili di vita e mentalità aperte. Hanno colpito noi e quel mondo, che andava difeso.
Com’è stato essere un combattente?
La guerra ti chiede cose che non sono umane, ti mette di fronte a te stesso e a situazioni estreme dal punto di vista morale. Qualunque scelta tu faccia è sbagliata, vivi in una continua contraddizione, nakoki in curdo, perché la guerra stessa è contraddizione. È un’esperienza che cambia le tue abitudini mentali, soprattutto per chi come me veniva dalla sinistra un po’ immaginaria e onirica dei movimenti.
La guerra ti mette di fronte a te stesso e a situazioni estreme dal punto di vista morale. Qualunque scelta tu faccia è sbagliata, vivi in una continua contraddizione
Qual è il suo rapporto con i conflitti in corso?
Di terrore. È un argomento di cui faccio fatica pure a parlare. Alcuni miei amici sono tornati nell’esercito varie volte, uno è andato a combattere anche in Ucraina dove è stato ucciso di recente. Io non riuscirei a farlo. Chi sopravvive al fronte vive lacerazioni interne e matura pensieri terribili, c’è chi si è tolto la vita. Negli scontri si perdono amici e sopravvivere a loro è difficilissimo. Detto questo, continuo a considerare e studiare la guerra. Per lavoro, faccio ricerca su temi sociali e su ciò che ci riguarda collettivamente, quindi non mi volto dall’altra parte. Incontro gruppi e studenti e ragiono con loro sul come e perché si possono appoggiare alcuni movimenti o fenomeni.
Nonostante la sua esperienza, ha avuto parole molto dure contro quello che ha definito il pacifismo assoluto. Perché?
Non idealizzo o apprezzo la rivolta in quanto tale, ma non capisco la posizione pacifista quando è posta in termini di principio. Non credo neppure che sia una precondizione per essere di sinistra. Si può ammirare il movimento cecoslovacco, che ha scelto di non fare resistenza armata durante l’invasione del paese da parte dell’unione del patto di Varsavia e, contemporaneamente, notare che l’Algeria o il Vietnam da colonizzati non stavano meglio. Mi chiedo quanta giustizia siamo pronti a sacrificare per la pace. Non si può chiedere alle popolazioni di sopportare e basta. Sono in disaccordo con la maggior parte delle iniziative violente che sono esistite o esistono oggi, ma faccio delle eccezioni, anzitutto nei casi del colonialismo e dell’occupazione militare. Come nel caso dell’Ucraina, del Kurdistan e della Palestina. Non vuol dire che il mio supporto sia acritico e incondizionato, anche dentro la resistenza non è tutto lecito. Le convenzioni della comunità internazionale, come quella di Ginevra, valgono anche in questi casi.
Qual è il limite entro il quale considera legittimo l’uso della forza?
Lo dice benissimo Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno quando, pur ammettendo la difficoltà di tracciare un confine, il partigiano spiega la distanza tra loro e i fascisti. Per chi resiste, lo scopo della battaglia è "costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi", nel caso dei fascisti la violenza serve solo "a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio". Violenza, competizione e morte per i resistenti non sono valori in sé, sono al più strumenti di lotta in condizioni estreme per raggiungere obiettivi che allontanino la necessità di tutto questo.
Come dice Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, per chi resiste lo scopo della battaglia è «costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»
In che modo le forme di resistenza partecipano alla costruzione della pace?
Vi faccio un esempio. In Siria, il movimento confederale ha sin da subito cercato di dialogare sia con l’opposizione islamista sia con il regime siriano. Ha formato, con altri gruppi, una coalizione che chiedeva di parlare con il governo per costruire un cambiamento istituzionale. Certo, di fronte allo Stato islamico c’era poco da dialogare, però le Ypg continuano a chiedere interlocuzioni a tutti gli attori, compresa la Turchia, e ad avanzare proposte di pace per una Siria decentrata e più democratica.
Sostenere Hamas è un modo per favorire la pace giusta per la Palestina?
No, quanto successo il 7 ottobre configura crimini di guerra impossibili da giustificare. Trovo gravissimo che in molti casi non si facciano distinguo, temendo di indebolire la causa filo-palestinese. La linea della barricata non deve servire solo a dividere il nostro campo dall’altro, ma anche a migliorarci al nostro interno e fare prevalere soluzioni che siano veramente di liberazione. Presupporre una sola distinzione tra “noi” e “loro”, senza riconoscere e discutere l’accaduto, o persino negandolo, vuol dire crearsi una realtà a proprio uso e consumo e credere che questo aiuti l’obiettivo. Non è così, anzi.
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Le manifestazioni per la pace servono a qualcosa?
Quelle che si stanno organizzando in questi ultimi tempi non centrano molto l’obiettivo. Tanti miei amici partecipano, io stesso ad alcune partecipo, vedo che c’è buona volontà e si vorrebbe impattare. Purtroppo, però, come i governi, anche alcuni movimenti in questo periodo sono caratterizzati da due pesi e due misure: gli ucraini non dovrebbero resistere con le armi, mentre i palestinesi possono farne anche usi controproducenti e inaccettabili. Siamo certi si tratti sempre di sincera empatia verso gli esseri umani che subiscono forme di occupazione? Le manifestazioni contro la guerra in Ucraina, che stigmatizzavano l’uso delle armi, hanno avuto un effetto disastroso, isolando i movimenti di sinistra ucraini, soprattutto giovani donne, che già hanno compiti difficilissimi nel loro Paese e adesso si sentono ancora più soli e osteggiati. Nessuno li sta sostenendo, tranne i gruppi russi e bielorussi. Non capire questi limiti, non tematizzarli e non superarli, rende le iniziative di pace poco credibili e ancor meno utili.
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