21 dicembre 2023
C’è stato un momento in cui ha pensato al suicidio come unica via d’uscita per un dolore che “non può finire mai”. Vito Alfieri Fontana ha passato metà vita a progettare e costruire mine antiuomo: la più sofistica, la TS-50, esplode anche a distanza di decenni. “Difficile dirlo, ma non me ne fregava niente delle vittime. Progettavo immaginando di dover stanare i soldati che passavano sul campo minato. Non ero il solo. Alla fiere, facevamo a gara su chi costruiva armi capaci di uccidere più gente possibile. Ci compiacevamo del male, ma non ce ne rendevamo conto. Non volevamo vedere. Se ci ripenso, provo un profondo disgusto”.
"Alla fiere, facevamo a gara su chi costruiva armi capaci di uccidere più gente possibile. Ci compiacevamo del male, ma non ce ne rendevamo conto. Non volevamo vedere. Se ci ripenso, provo un profondo disgusto"
Vito dice di non essere nato buono, per lui il bene è una scelta quotidiana che ha seguito il "sentirsi un pezzo di merda”. Era l’inizio degli anni Novanta e la Tecnovar di Bari, da lui diretta, aveva già venduto due milioni e mezzo di ordigni. Ne ha poi disinnescati migliaia, ma il bilancio rimane impari, racconta nel libro Ero l’uomo della guerra (Laterza). “Oggi le armi italiane sono una responsabilità collettiva”, avverte.
Che intende?
Quasi l’intera produzione è sotto l’ala di Leonardo, una società pubblica. Ogni bullone confezionato è frutto della precisa politica di un governo espressione delle scelte elettorali del popolo italiano. Il controllo deve avvenire anche dal basso. Bisogna pretendere trasparenza e la vendita ai regimi non democratici va riconsiderata.
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