Aggiornato il giorno 21 novembre 2024
C’è stato un momento in cui ha pensato al suicidio come unica via d’uscita per un dolore che “non può finire mai”. Vito Alfieri Fontana ha passato metà vita a progettare e costruire mine antiuomo: la più sofistica, la TS-50, esplode anche a distanza di decenni. “Difficile dirlo, ma non me ne fregava niente delle vittime. Progettavo immaginando di dover stanare i soldati che passavano sul campo minato. Non ero il solo. Alla fiere, facevamo a gara su chi costruiva armi capaci di uccidere più gente possibile. Ci compiacevamo del male, ma non ce ne rendevamo conto. Non volevamo vedere. Se ci ripenso, provo un profondo disgusto”.
"Alla fiere, facevamo a gara su chi costruiva armi capaci di uccidere più gente possibile. Ci compiacevamo del male, ma non ce ne rendevamo conto. Non volevamo vedere. Se ci ripenso, provo un profondo disgusto"
Vito dice di non essere nato buono, per lui il bene è una scelta quotidiana che ha seguito il "sentirsi un pezzo di merda”. Era l’inizio degli anni Novanta e la Tecnovar di Bari, da lui diretta, aveva già venduto due milioni e mezzo di ordigni. Ne ha poi disinnescati migliaia, ma il bilancio rimane impari, racconta nel libro Ero l’uomo della guerra (Laterza). “Oggi le armi italiane sono una responsabilità collettiva”, avverte.
Che intende?
Quasi l’intera produzione è sotto l’ala di Leonardo, una società pubblica. Ogni bullone confezionato è frutto della precisa politica di un governo espressione delle scelte elettorali del popolo italiano. Il controllo deve avvenire anche dal basso. Bisogna pretendere trasparenza e la vendita ai regimi non democratici va riconsiderata.
Uno dei principali acquirenti della Tecnovar è stato l’Egitto. Tornando indietro, sarebbe di nuovo un suo cliente?
No.
Aggirare le licenze necessarie all’esportazione di armi è possibile?
La legge italiana è una delle migliori d’Europa. I produttori potrebbero delocalizzare in altri paesi, ma a quel punto si trasformerebbero in dei trafficanti.
Da ingegnere, crede nella definizione di armi intelligenti?
Quanto questa definizione sia assurda l’ho imparato a Belgrado. Stavo realizzando una valutazione dei danni causati dai missili cruise. I miei accompagnatori raccontavano che la popolazione era stata avvisata dei bombardamenti ma non aveva lasciato le proprie case credendo nell’impiego di strumenti in grado di evitare i complessi abitativi. La verità è che non esiste alcuna precisione chirurgica.
Perché la sua famiglia ha iniziato a fabbricare mine?
Alla fine degli anni Sessanta furono indetti dei bandi pubblici per riparare le mine anticarro che si stavano degradando. Mio padre capì che il problema era il deterioramento delle componenti in plastica e ideò un materiale in grado di resistere a temperature estreme. Poi l’azienda iniziò a produrre anche mine antiuomo. Le facevano tutti. Non sembrava un problema. Eppure da tempo erano utilizzate in maniera diversa, feroce.
Cioè?
Le prime mine sono state usate durante la seconda guerra mondiale per stabilizzare i fronti. Venivano piazzate tra le barriere di filo spinato che proteggevano le trincee. Con la guerra in Corea e in Vietnam sono diventate strumenti di guerriglia: si minavano i campi e le case. L’efficienza in battaglia era nulla. Per individuare l’area bastava che scoppiasse un ordigno. Ma per i civili i campi minati significavano morte perenne: sopra, non ci si poteva più coltivare, giocare, o passeggiare. Erano loro le vittime principali, però abbiamo fatto finta di non saperlo fino agli anni Novanta. Andava bene a tutti.
La guerra in Ucraina legittima il riarmo
Poi lei ha iniziato a vacillare.
Il primo colpo lo sferrò mio figlio. Aveva otto anni, in auto sfogliò un catalogo della Tecnovar, mi chiese informazioni e concluse: papà, sei un assassino. In azienda cominciarono anche ad arrivare pacchi, senza francobollo né mittente, con dentro una scarpa sola. Inizialmente mi arrabbiai, durò poco: quello che stavo facendo era indifendibile e all’origine di una lacerazione interiore. Cambiare percorso non fu semplice. Nel 1996 una commissione dell’Organizzazione delle nazioni unite trovò le TS-50 nelle mani degli hutu, responsabili del massacro dei tutsi, in Ruanda, nonostante l’embargo internazionale. Mi crollò il mondo addosso. Gli unici affari li avevo fatti col Cairo, che però aveva rivenduto la merce.
"I civili erano le vittime principali delle mine, però abbiamo fatto finta di non saperlo fino agli anni Novanta. Andava bene a tutti"
Le mine antiuomo sono tutt’oggi un problema?
Sì, soprattutto dove i conflitti sono ancora in corso. Al confine tra Iraq e Iran ce ne sono almeno 40 milioni. I due paesi le considerano una sorta di assicurazione sulla vita. La produzione non si è mai fermata negli Stati che non hanno aderito al trattato sulla loro messa al bando, come Cina, Corea del Sud, India, Pakistan, Russia e Stati Uniti. Quando si bonifica, gli sminatori riescono ormai a intervenire in fretta. Un pericolo rimangono i proiettili inesplosi, che vengono recuperati per ricavarne esplosivo o rame. In Afghanistan si contano oltre 20 incidenti al giorno.
È mai riuscito a perdonarsi?
Ogni campo che ho contribuito a sminare è stato un campo riportato alla vita, alla pace, ma il cuore rimane pesante.
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