(Foto di Desola Lanre-Ologun/Unsplash)
(Foto di Desola Lanre-Ologun/Unsplash)

Sulla diffusione dell'hi-tech di Africa, "governi e aziende locali vogliono dettare le condizioni"

Iginio Gagliardone, professore universitario in Sudafrica e ricercatore di Oxford, studia l'influenza dell'innovazione tecnologica sulle società dei paesi africani: "La diffusione di Internet ha sulla maggior parte della popolazione conseguenze più complesse", spiega in un'intervista

Giulia Filpi

Giulia Beatrice FilpiGiornalista freelance

21 febbraio 2024

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Il ruolo della tecnologia in Africa, come strumento sia di emancipazione sia di controllo, è sopravvalutato. Lo crede Iginio Gagliardone, professore ordinario di media e comunicazione dell'università di Witwatersrand, a Johannesburg, e ricercatore in nuovi media e diritti umani dell'università di Oxford. “I social non hanno salvato il Nord Africa dalle dittature, così come le tecnologie di sorveglianza, comprate in Cina dai governi del continente, si inceppano”, dice a lavialibera.

In Africa, la diffusione di internet sta crescendo a velocità costante, pur essendo ancora indietro rispetto a quella degli altri continenti e con ampi divari regionali. C’è una correlazione tra miglioramento della qualità di vita e diffusione di internet?
Questa narrativa ce la portiamo dietro dagli anni Novanta, e la abbracciavo anch’io all’inizio della mia carriera, ma oggi penso sia idealista. Secondo la Banca mondiale, una correlazione esiste. Vero è che per alcuni settori della società internet rappresenta un'opportunità per avere informazioni e organizzare iniziative. L’esperienza sul campo, però, dimostra che la sua diffusione ha sulla maggior parte della popolazione conseguenze più complesse. Si pensi al caso di Frances Haugen, il whistleblower che ha parlato del ruolo di Facebook nelle violenze etniche in Etiopia, dove l'animosità, l'odio, e la diffidenza tra le popolazioni possono essere state esacerbate dalle reti sociali.

Iginio Gagliardone
Iginio Gagliardone

Nel 2011, sembrava quasi che la diffusione dei social e di internet potessero generare una trasformazione politica in senso democratico. Quale bilancio oggi?
Tutti i Paesi del Nord Africa, a parte forse il Marocco, se la passano peggio di prima. La Tunisia è sempre più xenofoba. In Egitto c’è Al-Sisi, un dittatore. Ma questa delusione andrebbe trasformata in consapevolezza: alcune tecnologie, soprattutto quelle meno aziendali, possono essere usate per migliorare la salute delle democrazie.

Esiste in Africa un'élite digitale?
Sì, ed è possibile osservarla anche nella mia università. Ci sono tanti studenti e professori preparati, con progetti interessanti. Tra i nostri, uno è Lelapa: start-up nata con l'idea di integrare contenuti in lingue africane in modelli di machine learning (apprendimento automatico, ndr). L'intelligenza artificiale ha bisogno di tantissimi dati per essere addestrata e a oggi, le lingue africane, come anche l’italiano, sono sottorappresentate. Questo fa sì che strumenti come ChatGpt funzionino meglio in inglese.

La nascita di un'élite hi-tech africana

Il trasferimento di competenze da parte degli investitori esteri, in particolar modo cinesi, potrebbe determinare una progressiva emancipazione dell'industria hi-tech del continente?

"Un’altra storia emblematica è successa in Etiopia, dove il precedente governo ha avviato degli impianti eolici con delle compagnie cinesi, ma ha imposto che il trasferimento tecnologico coinvolgesse ingegneri e tecnici del Paese"

Huawei (colosso hi-tech cinese, ndr) ha avviato in alcune università dei programmi di formazione per studenti. Ma si tratta di un caso più unico che raro: la Cina non ha alcun interesse a una progressiva emancipazione. Un’altra storia emblematica è successa in Etiopia, dove il precedente governo ha avviato degli impianti eolici con delle compagnie cinesi, ma ha imposto che il trasferimento tecnologico coinvolgesse ingegneri e tecnici del Paese, che sono stati formati in Cina e in loco. In generale, da parte di governi e compagnie africane, si nota una maggiore consapevolezza. Vogliono mettere le loro condizioni, non subire. Va però evidenziata una disparità tra i Paesi del continente. Queste possibilità non ci sono in Burkina Faso o nella Repubblica Centrafricana, per non parlare degli Stati in guerra come il Sudan. Ma Sudafrica, Kenya, Etiopia, Ruanda e Nigeria hanno sempre più risorse umane consapevoli di avere maggiori opportunità di crescita.

È prematuro formulare ipotesi sul futuro ruolo dell'Africa nell'industria digitale globale?
Difficile che il Paese si imponga. Ma c'è un immaginario interessante che parla al mondo e non solo all'Africa. La science-fiction africana è più matura di quanto fosse in passato e ha anche una qualità diversa. Da un paio di decenni si stanno affermando movimenti letterari, come quello definito afrofuturismo, che avranno un seguito crescente nei prossimi anni. Penso a un film come District 9, in cui si immagina una società dove vige la segregazione tra una razza aliena e gli umani. 

Il fantastico africano, letteratura oltre il razzismo

Giornalisti e ricercatori occidentali hanno dedicato molta attenzione alle vendite di dispositivi di sorveglianza cinesi in Africa, sottolineando i rischi di questo business per i diritti umani. Quali sono, secondo lei, i limiti e le ragioni di questa narrativa?

"Il fatto che la sorveglianza non sia così efficiente non vuol dire che la democrazia non sia in pericolo. Lo è per altri motivi, come le istituzioni fragili e il populismo"

I media, così come alcuni centri di ricerca, tendono a focalizzarsi sulla sorveglianza. Lo trovo pigro. L’equazione sembra ovvia: la Cina ha un sistema di sorveglianza distopica. Trasportando queste tecnologie in Africa, replica questa distopia. Ma come non hanno funzionato le cosiddette tecnologie della liberazione in Nord Africa, così anche le tecnologie di sorveglianza e repressione si inceppano. Questo succede perché sono state pensate e sviluppate in maniera organica al sistema socio-politico cinese: da una parte, sono accettate dalla società; dall'altra, sono utilizzate in maniera sistematica. Con i problemi di approvvigionamento elettrico che ancora ci sono in Africa, è anche ridicolo pensare che la Cina trasformi il continente in maniera distopica.

Certo, si tratta di strumenti che possono essere sfruttati per la repressione dei dissidenti, ma i dissidenti vengono repressi comunque. Il fatto che la sorveglianza non sia così efficiente non vuol dire che la democrazia non sia in pericolo. Lo è per altri motivi, come le istituzioni fragili e il populismo. Inoltre, riguardo al ruolo della Cina, si parla sempre più spesso di guerra fredda digitale. È un'espressione che mi sembra solo parzialmente inappropriata. I Paesi africani non sono interessati a schierarsi con un blocco o con l’altro: tranne alcuni casi, come quello dello Zimbabwe che è stato costretto a costruire un rapporto privilegiato con la Cina a causa delle sanzioni Usa. Per il resto, molti Stati sono abili a coinvolgere una pluralità di partner diversi, a seconda delle loro esigenze.

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