26 aprile 2023
Quale spazio la letteratura occidentale ha concesso nel tempo agli autori neri? In che modo gli europei hanno giustificato, in passato e non solo, il profilo dei personaggi africani? E quali trame, nel sentire dei bianchi, meglio rappresentano l’habitat naturale entro cui far muovere i secondi? Domande, queste, a cui la scrittrice italo-ghanese Djarah Kan cerca di dare un’ampia risposta di sintesi: “Osservando come l’industria della letteratura e dei media dipingeva le persone nere – sostiene la scrittrice – ho capito che […] la letteratura dura e realista era l’unico spazio che [noi neri] eravamo legittimati a occupare. Razzismo, colonialismo, schiavitù. Duri e crudi, senza interventi magici o divini. L’intera personalità dei protagonisti neri si basa per lo più sul trauma di essere neri in una società che razzializza” qualsiasi ambito dell’esistenza e che facilmente indulge all’abitudine di affidare ai neri il ruolo delle vittime. “E le vittime – continua Kan – non possono compiere magie o essere figli di una realtà in cui essere africani non sia il Dramma per eccellenza. I neri devono soffrire. O essere tristi per il trattamento che ricevono da terzi solitamente bianchi”.
I neri africani, in letteratura, sono in grado anche di sognare altri mondi che non siano l’Europa di oggi
Per contrastare questo disdicevole andazzo, e per contribuire a liberare, almeno in parte, la letteratura africana dal discorso della e sulla razza, la casa editrice romana Nero ha di recente dato alle stampe Omenana, una raccolta di narrazioni brevi provenienti dal continente africano e dalla diaspora africana nella cui prefazione leggiamo le parole di Djarah Kan. Omenana, ovvero una selezione di racconti fantastici pubblicati negli ultimi anni sull’omonima rivista nigeriana, grazie alla quale i lettori bianchi europei (italiani, nella fattispecie) possono rendersi conto di un fatto davvero “inusuale” nel nostro panorama editoriale: i neri africani, in letteratura, sono in grado anche di sognare altri mondi che non siano l’Europa di oggi; possono anche non essere vittime dei bianchi e della loro violenza diretta o indiretta; tristi o allegri che siano, fortunati o sventurati, in qualità di personaggi, i neri africani sono capaci anche di abitare racconti in cui a farla da padrone è l’universo dell’immaginazione e della cosiddetta fiction speculativa, e non il cupo realismo dello sfruttamento mondano, della povertà e della sofferenza.
Non si tratta qui di lasciarsi andare alla pratica del cosiddetto blackwashing, pratica in espansione nel cinema odierno con la quale si affidano ad attori neri ruoli “tradizionalmente” ricoperti da bianchi o pensati per essi, come nel caso della sirenetta Ariel interpretata dall’attrice Halle Bailey nel film Disney del 2022. Si tratta piuttosto di decolonizzare e derazzializzare un genere letterario, ovvero il fantastico (e in subordine la fantascienza, il weird, il fantasy), lasciando che i neri siano liberi, come di fatto sono, dalle catene del crudo realismo di sopra. Intenzione nella quale l’antologia proposta riesce in maniera eccellente, presentandoci una galleria di sedici racconti più o meno memorabili in pieno accordo con i classici temi e stilemi che caratterizzano il fantastico in quanto genere letterario.
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Ecco che allora, tra le pagine del libro, ci troviamo a leggere le vicende di un uomo che costruisce una macchina del tempo per andare a ritroso negli anni e incontrare il suo sé più giovane, così da offrirgli suggerimenti sulla sua vita amorosa ma generando al contempo irrisolvibili e parodici loop temporali (come nel racconto Trama matrimoniale, firmato dallo zimbabwese Tendai Huchu); oppure la storia di una ristoratrice di Lagos affetta da una particolare forma di sinestesia, grazie alla quale è in grado di vedere con precisione gli odori, diventando in tal modo autrice di una perfetta arte gastronomica, ambitissima dai clienti ma allo stesso tempo invidiata dai suoi agguerriti concorrenti (come nel racconto Tortini e nuovi inizi, del nigeriano Suyi Davies Okungbowa).
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O ancora gli avvenimenti di un mondo del prossimo futuro in cui le persone sono costrette a nutrirsi di carne umana a causa di vari sconvolgimenti climatici che hanno insterilito la Terra e di un incremento demografico che ha portato il computo degli esseri umani alla strabiliante cifra di centocinquanta miliardi di unità, cosa che porta vari esperti scienziati a impegnarsi nella definizione di un progetto di vita sotterranea in cui coinvolgere i due terzi della popolazione mondiale, così da poter liberare in superficie nuovi spazi da dedicare alla produzione di cibo (come nel racconto Underworld 101 di Mame Bougouma Diene, autore franco-senegalese-americano). Tutte storie le cui trame ben figurerebbero in una qualsiasi rivista o collana editoriale occidentale dedicata al fantastico e alla fantascienza.
Tra le sedici narrazioni che costituiscono la raccolta, una menzione particolare va però fatta ai racconti intitolati Dall’altra parte del mare (tra i più coinvolgenti della raccolta, a firma della sudafricana Nerine Dorman) e Dattilografo (del gabonese Rèlme Divingu), per due diverse ragioni. Nel primo caso – una storia in cui due sorelle camminano per mesi attraverso paesaggi post-apocalittici verso il mare, nella speranza di valicare le acque per approdare su lidi più felici – perché il tema delle migrazioni sembra svincolarsi dalle coniugazioni realiste di cui parla Kan, venendo invece trattato al modo in uso in romanzi che nel fantastico hanno fatto scuola, come il più famoso La strada di Cormac McCarthy, celebre anche per aver ispirato l’omonimo film con Viggo Mortensen. Nel secondo caso – un breve dialogo in cui un informatico presenta un programma in grado di supportare gli autori di narrativa nella scrittura delle loro storie – perché viene rispettata una delle principali caratteristiche della fantascienza, ossia la sua capacità di anticipare fenomeni e dibattiti che prendono poi piede anche al di là delle pagine dei libri, come sta accadendo proprio in questi mesi con la massiccia diffusione dell’intelligenza artificiale che abbiamo imparato a conoscere come ChatGPT, in grado come noto di redigere testi di vario genere usando un linguaggio apparentemente umano.
In ogni caso, quale che sia la ragione, quale che sia il valore dei singoli racconti proposti, l’esercizio che Omenana propone ai lettori va intrapreso con impegno, affinché ci si adegui all’invito avanzato ancora da Djarah Kan nella prefazione dell’antologia, ovvero abbandonare per sempre “l’idea di [continuare a] rendere la nostra immaginazione uno spazio bianco”.
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