15 aprile 2024
A Riace l’accoglienza non era un business, ma una mission diretta a "perseguire un modello […] non limitato al solo soddisfacimento di bisogni primari, ma finalizzato all'inserimento sociale dell'ospite di ciascun progetto". Un modello da esportare e non da condannare. Potrebbero riassumersi così le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Xenia, in cui i giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria hanno smontato pezzo dopo pezzo l’impianto portato avanti dall’accusa e poi confermato dal tribunale di Locri con la condanna per 16 imputati, a più riprese definita "abnorme". La condanna più pesante, a 13 anni e 2 mesi di carcere, era stata pronunciata nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, un tempo noto come “il borgo dell’accoglienza”. Verdetto ribaltato lo scorso 11 ottobre dai giudici di Appello.
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A un’attenta lettura, per i magistrati di secondo grado anche le prove raccolte da chi accusava Lucano mettono in luce "lo spirito di fondo che ha mosso l'imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi". Nei confronti dell’ex sindaco di Riace rimane una condanna a 18 mesi (con pena sospesa) per un presunto falso relativo a un solo atto, firmato nel 2017, sui 57 – invece – contestati dalla procura di Locri. Ma soprattutto rimane un calvario lungo cinque anni, quelli trascorsi dal blitz della Guardia di finanza a cui era seguito l’arresto e l’avvio di una lunga fase cautelare, nonché il rammarico per quello che Riace era e sarebbe potuta continuare a essere.
Come ribadito anche dal collegio giudicante presieduto da Elisabetta Palumbo, nel processo iniziato il 25 maggio 2022 e celebrato in Appello, si è fatta attenzione alla "non comune complessità e delicatezza delle vicende trattate". Non a caso, a inizio gennaio la corte aveva richiesto una proroga di 90 giorni per il deposito delle motivazioni. La sentenza ha riletto le prove dando un’interpretazione molto diversa da quella offerta in primo grado. Il collegio presieduto dal giudice Fulvio Accurso, nel provvedimento pronunciato a fine settembre 2021, aveva definito Lucano il "dominus indiscusso" di un’associazione a delinquere, finalizzata a strumentalizzare il sistema di accoglienza a Riace, nel periodo interessato dalle indagini che va da gennaio 2014 a settembre 2017, quando nel borgo erano attivi i progetti Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), Cas (centri di accoglienza straordinaria) e Msna (minori stranieri non accompagnato). Si parlava di "mala gestio" dei progetti dettata dalla volontà degli imputati, e in particolare di Lucano, di accaparrarsi risorse pubbliche o da un "movente politico".
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Secondo i giudici di primo grado, Lucano era mosso dalla ricerca di visibilità. Una tesi ripresa dalla propaganda della destra, ma smentita in appello
Secondo i giudici di primo grado, l’ex sindaco era divorato dal "demone ossessivo della ricerca di una sempre maggiore visibilità". Un assist per la propaganda di destra. All’indomani della sentenza, Giorgia Meloni si era infatti scagliata sui propri social contro "l’idolo della sinistra immigrazionista" sostenendo che "i soldi pubblici destinati agli immigrati finivano alle solite cooperative rosse e nelle case pagate dallo Stato per l’accoglienza ci dormivano i vip radical chic e i cantanti quando andavano a fare le passerelle a Riace. Insomma, la solita mangiatoia progressista sulla pelle dei disperati". E, tuttavia, scrivono i giudici di Reggio Calabria a distanza di tre anni: "Che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza" che emerge dai suoi stessi dialoghi intercettati, come quello in cui "egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell'accoglienza senza alcuna finalità predatoria". Piuttosto "egli era convinto che proprio l'assenza di qualsiasi finalità predatoria gli aveva procurato non poche inimicizie". Di quel “demone”, insomma, non è stata trovata traccia sui conti correnti dell’allora sindaco di Riace che, nel frattempo, ha anche rifiutato le candidature alle elezioni politiche e al parlamento europeo.
I giudici hanno riscontrato un "disordine amministrativo e contabile, ma anche l'assenza di un governo complessivo delle azioni" necessario a dimostrare un progetto criminale
Così, partendo dagli stessi presupposti e dalle stesse prove, la corte d’Appello è arrivata a conclusioni opposte rispetto al tribunale di Locri, a cominciare dalla presunta esistenza – già in realtà smentita dai giudici in fase cautelare – di una associazione a delinquere necessaria a dimostrare anche una lunga serie di reati-fine: dalla truffa al peculato. Tutto smontato. "La sentenza appellata – si legge nelle motivazioni dei giudici di secondo grado – non consente di derivare, dall’analisi delle singole condotte, indicatori sicuri della avvenuta strutturazione di mezzi e persone, secondo un coordinamento complessivo che trascenda le singole azioni". In altri termini, non ci sarebbe stato un disegno unitario e perverso dietro la gestione dell’accoglienza a Riace da parte dell’amministrazione di Lucano e delle associazioni. Ma più che altro un agire caotico dei soggetti coinvolti, che esclude l’esistenza di un’associazione a delinquere. "Le relazioni ispettive, le prove per testi e financo le stesse conversazioni intercettate delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni, nonché l’inesorabile procedere delle associazioni in ordine sparso". Anche il linguaggio delle conversazioni, secondo i giudici, non usato nella forma "criptica o convenzionale" dagli allora indagati, per "evitare di essere compresi da temuti ignoti ascoltatori", basta di per sé a smentire l’esistenza di un sodalizio criminale.
"Non giova al tema d'accusa neppure l'analisi del trattenimento dei migranti oltre i termini" previsti dai progetti. La Corte d’Appello si è soffermata anche sul tema dei cosiddetti “lungopermanenti”, a cui è stato riservato ampio spazio durante i processi. Nella ricostruzione del tribunale di Locri, i migranti sarebbero stati trattenuti nei progetti Sprar e Cas oltre i tempi e i modi consentiti dalla legge, nascondendo le informazioni a prefettura e Viminale per ottenere un profitto quantificato in oltre 2 milioni di euro. La corte d’Appello ha smentito questa ricostruzione e ha aggiunto: da parte del Viminale e della prefettura c’era "la piena consapevolezza della presenza dei 'lungopermanenti' a Riace" che potrebbe risalire già al 2014, anno di di inizio delle indagini. A questo proposito, è stata citata una circolare ministeriale del 2015 secondo cui "in mancanza di posti per effettuare il passaggio nello Sprar – situazione effettivamente verificatasi – il richiedente restava in accoglienza nei centri governativi (anche se aperti in via temporanea)".
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Su questa base, alcune delle associazioni che gestivano i progetti nel borgo avevano inviato comunicazioni ad hoc sia al servizio centrale che alla prefettura. Dato già emerso dalle relazioni ispettive volute dall’allora prefetto reggino Michele di Bari, che determinarono la "decurtazione delle somme erogate per il periodo successivo". Inoltre, nel momento in cui alle persone veniva comunicata la possibilità che avrebbero dovuto abbandonare il progetto "venivano inscenate proteste che richiedevano l’intervento della forza pubblica". Da un lato, dunque, il ministero dell’Interno e la prefettura erano a conoscenza della situazione, dall’altra il Comune viveva una sorta di stasi. "In presenza dei presupposti di legge costoro andavano, al limite, espulsi, con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco" o dei legali rappresentanti delle associazioni. Per i migranti del progetto Cas, invece, "la competenza all’espulsione spettava ai prefetti". A più riprese, Lucano, che oggi si dice "sollevato" da una sentenza che salvaguarda le idee prima ancora della persona, aveva ribadito la consapevolezza di quanto avvenisse a Riace da parte di ministero dell’Interno e prefettura: "Se a Riace è esistita un’associazione a delinquere, allora ne hanno fatto parte".
"L'assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l'indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza sono indicatori meritevoli di considerazione"
In molti hanno parlato dell’indagine Xenia come di un atto politico e simbolico. Di certo, i giudici d’Appello non hanno condiviso la chiave di lettura che ha legato le azioni dell’ex sindaco di Riace a una "logica predatoria delle risorse pubbliche, ad appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull'avidità", escludendo qualsiasi connotazione altruistica dalla personalità di Lucano "nei fatti sacrificata agli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore". Viceversa, "il collegio ritiene che la personalità dell'appellante (Mimmo Lucano, ndr), il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l'assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l'indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza siano indicatori meritevoli di considerazione".
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