27 maggio 2024
Cinquant’anni fa, il 28 maggio 1974 a Brescia, in piazza della Loggia, un ordigno piazzato in un cestino da appartenenti all’organizzazione di estrema destra Ordine Nuovo esplose nel corso di una manifestazione sindacale antifascista, provocando otto vittime e più di cento feriti. Per quei fatti, due persone, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, sono state condannate in via definitiva nel 2017 e altri due uomini sono ora a processo perché ritenuti gli esecutori materiali. Un primo processo si aprirà tra due giorni, il 30 maggio, contro Marco Toffaloni per concorso in strage: si terrà davanti al tribunale dei minori perché all’epoca della strage l’imputato aveva appena 16 anni. Un altro processo, quello a Roberto Zorzi, entrerà nel vivo il 18 giugno davanti alla Corte d’assise di Brescia.
Le sentenze finora hanno acclarato che quella di piazza della Loggia è stata una strage compiuta dalla destra eversiva, come anche la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969, quella di Bologna nel 1980 e molte altre, eppure questa verità giudiziaria “non è ancora non recepita interamente da questo paese”, anzi “è un elemento non solo misconosciuto, ma per molti aspetti divisorio, se non addirittura falsificato”. Sono le parole di Manlio Milani, marito di Livia Bottardi (una delle vittime di quell’attentato), pronunciate nel corso di un incontro organizzato dal coordinamento bresciano di Libera il 14 maggio scorso con don Luigi Ciotti. Milani, all’epoca dei fatti militante del Pci e della Cgil, dopo la tragedia è stato tra i promotori dell’associazione dei familiari delle vittime e oggi preside la Casa della memoria, centro di iniziative e di documentazione sulla strage e sulla strategia della tensione.
"Laddove la verità giudiziaria è arrivata ad alcune conclusioni, come su Brescia o più recentemente sulla strage di Bologna, i media continuano a parlare di ombre e di misteri”Manlio Milani - Presidente della Casa della Memoria di Brescia
“Io sono personalmente convinto che i due condannati in via definitiva, il mandante Carlo Maria Maggi e il militante di Ordine nuovo Maurizio Tramonte, siano i responsabili – dice Milani –. Tramonte avrebbe potuto raccontare subito, se non addirittura prima, le decisioni di fare quella strage. Però lui era al libro paga dei servizi segreti. Le due figure sono molto importanti perché certificano le collusioni” con alcuni apparati dello Stato. Adesso a processo ci sono due persone che da molto tempo abitano all’estero con una nuova identità: “Ora abbiamo sul banco degli imputati i presunti esecutori, vedremo come finirà. Il processo ci permetterà di ampliare il contesto storico in cui la strage di Brescia, ma non soltanto questa, è avvenuta e di far emergere anche i legami”.
Volto rappresentativo di quella che è stata la battaglia dei bresciani e dei familiari delle vittime della strage per avere verità e giustizia, Milani sostiene che “la verità è una costante ricerca ed è contemporaneamente è duplice. C'è una verità giudiziaria e c'è una verità storica, non sempre si congiungono, ma non possono elidersi l’una rispetto all’altra”. Quella giudiziaria – nota – richiede il “rispetto profondo delle regole”, ma questo rispetto è stato a lungo assente, come dimostra la storia delle stragi e della loro impunità: “È stata costellata da costanti depistaggi per falsificare la realtà, non soltanto per coprire gli autori di quella strage. Anche laddove la verità giudiziaria è arrivata ad alcune conclusioni, come su Brescia o più recentemente sulla strage di Bologna, i media continuano a parlare di ombre e di misteri”.
Ci sono poi gli interessi politici, quelli degli eredi del Movimento sociale italiano, in parte legato alla storia del movimento eversivo Ordine Nuovo, che in origine era un circolo culturale di Pino Rauti, esponente del partito stimato da molti nel governo di Giorgia Meloni, processato e assolto (la figlia Isabella è sottosegretario alla Difesa). Milani ricorda di quando nel 2010, dopo le assoluzioni dell'ultimo procedimento, una deputata bresciana (Viviana Beccalossi, Popolo delle Libertà, ndr) “ebbe a dire che se i giudici avevano assolto, allora bisognava cercare dalla parte opposta". Insomma, se non erano stati i neofascisti, erano stati i terroristi di sinistra. "Ecco dove nascono le ombre. Ecco dove nasce la falsificazione della verità”.
Non è stato l’unico caso: “Quanti storici sembrano aver paura di dire che a Brescia sotto attacco è stata una manifestazione antifascista. Il 9 maggio scorso in Senato abbiamo sentito parlare non di manifestazione antifascista, ma di manifestazione sindacale, come se le due cose dovessero essere nettamente separate”. Il Pci e la Cgil convocarono quella manifestazione chiaramente antifascista come risposta ad alcuni attentati, anche falliti, e provocazioni dell’estrema destra avvenuti in città nei primi mesi del 1974.
“Ritornare a essere cittadini significa assumersi la responsabilità di condurre quella battaglia che deve portare alla verità, non soltanto in nome delle vittime, ma in nome della società"Manlio Milani
"Le persone morte in piazza della Loggia avevano scelto di essere lì per rivendicare i valori costituzionali e quindi dall'antifascismo, per questo motivo non le abbiamo mai chiamate vittime, ma caduti”, afferma Milani, che mette in guardia da alcuni limiti: “Le vittime devono anche stare molto attenti di non rinchiudersi nel proprio vittimismo”.
Ricorda come la strage e la sofferenza innescarono dei meccanismi civici, con la reazione composta dei manifestanti che evitano le provocazioni e gestiscono in autonomia l'ordine pubblico. "Il senso del dolore e della sofferenza può essere una straordinaria spinta quando è accompagnato dalla speranza e dalla volontà di comprendere e proiettarsi nel futuro in termini anche positivi – aggiunge –. Dopo la strage di Bologna, assieme ai familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana, della stazione di Bologna, del treno Italicus e di altri attentati, abbiamo creato un’unione e abbiamo raccolto le firme per abolire il segreto di Stato sulle stragi. Nel 1984 abbiamo consegnato la proposta di legge all'allora ministro degli Interni Francesco Cossiga, una proposta di legge che ha trovato una soluzione importante nel 2007, quindi quasi 23 anni dopo. Però fu un elemento estremamente importante perché divenne uno stimolo per dire che non volevamo soltanto porre all'attenzione la nostra condizione individuale”.
Il percorso verso cui mira la Casa delle memoria, costituita dall’associazione dei familiari insieme al Comune, alla Provincia, ai sindacati e alle associazioni di partigiani, ha un obiettivo: “Ritornare a essere cittadini. Significa assumersi la responsabilità di condurre quella battaglia che deve portare alla verità, non soltanto in nome delle vittime, ma in nome della società che deve avere la consapevolezza di quanto è accaduto”.
I familiari delle vittime di mafia: "Chiediamo diritti, non benefici"
Il processo di vittimizzazione, aggiunge il presidente della Casa della memoria, può essere uno strumento del potere per separare le persone: “Isola e rompe i rapporti sociali e riafferma quell'idea per cui 'Io ho agito così perché tu hai agito così, io ho risposto a te perché tu hai fatto questo'. È la logica che ha impedito per 15 anni alla commissione stragi di non realizzare una relazione da sottoporre al parlamento”. Lui, invece, rivela che avrebbe voluto avere un confronto con i responsabili della strage, porre loro delle domande e capire qualcosa di più: “Chi è questo colpevole? Perché ha fatto questo? Perché non si è fermato un attimo prima? Dove l’ha portato quel gesto? È possibile che una persona umana non sia consapevole delle conseguenze che provoca il suo gesto? Sono domande che io fino ad oggi non ho mai potuto fare e mi pesano”. Anche perché – considera – “la memoria pubblica non può ignorare le memorie del colpevole, anche il colpevole deve spiegarmi le ragioni per cui lui ha scelto quella strada, anziché un'altra strada”.
Per questo ritiene sia fondamentale il confronto, il dialogo per ricostruire i rapporti interrotti dalla violenza: “Dobbiamo costruire qualcosa di diverso. Qual è la forza fondamentale per arrivare alla pace, se non da un lato assumere la non-violenza e dall'altro lato farne oggetto di un dialogo profondo e provocante? La non-violenza è una grossa provocazione: è molto più difficile fare questo piuttosto che rispondere con violenza”. Per questo “devo pormi in una condizione di ascolto dell'altro, anche dell’altro ‘difficile', che può essere il colpevole, che dobbiamo aiutare ad assumere la consapevolezza delle proprie responsabilità”. Ricorda la storia di Margherita Asta, la cui madre e i cui fratelli sono stati uccisi dalla mafia nella strage di Pizzolungo, donna capace di avviare un percorso di dialogo con alcuni detenuti per mafia (leggi qui la storia). “Lei e Fiammetta Borsellino (la figlia di Paolo Borsellino, che ha tenuto molti incontri coi reclusi, ndr) ci insegnano molto da questo punto di vista”.
Strage di Pizzolungo, intervista a Margherita Asta
Anche Milani ha fatto un percorso di confronto con ex terroristi di sinistra: “Quando nel 2009 mi fu chiesto di partecipare a un incontro tra familiari e vittime del terrorismo della lotta armata e alcuni detenuti io ci andai, perché in primo luogo avevo bisogno di capire come può una persona uccidere. Loro appartengono alla mia stessa cultura, io mi sono scritto al Partito comunista nel 1959, loro hanno fatto una scelta diversa e hanno ucciso e io no. Sono convinto che l'impegno sindacale nel luogo di lavoro (Milani è stato anche un delegato Cgil, ndr) sia stato un luogo di grande insegnamento al dialogo perché laddove nasceva un conflitto, una rimostranza, una rivendicazione non dovevi agire da solo, ma dovevi prima confortarti con le altre organizzazioni sindacali e poi costruire insieme una risposta, e quindi il dialogo è sempre quell'elemento che ti permette di trovare una strada”.
Questi confronti coi detenuti l’hanno portato a un esame di coscienza. “Se la vittima non sa collocare la sua vicenda nella storia, non riesce a trasformarsi”. In altri termini: “Confrontandomi all'interno di questo gruppo ho capito la valenza della nemicità come strumento di separazione delle persone, però mi sono anche chiesto rispetto ai miei comportamenti, collocandomi nella storia di quel periodo, se anch'io non abbia avuto delle responsabilità. Quando andavamo nei cortei e gridavamo ‘Basco nero il tuo posto al cimitero’, o ‘Uccidere un fascista non è un reato’, non incitavano anche noi all'esercizio della violenza? Ecco, avremmo invece dovuto dire ‘No, queste affermazioni non si fanno e non si urlano perché – proprio come denunciava Nelson Mandela – se rispondi violentemente diventi uno esattamente come loro”.
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