23 agosto 2024
Era il 16 ottobre del 2019 quando il Guardian, uno dei giornali più autorevoli e attenti al mondo sulle questioni climatiche, pubblicava un articolo dal titolo “È crisi, non è cambiamento: sei parole che il Guardian cambia sul clima”. Non un banale aggiornamento delle linee guida redazionali, ma una presa di posizione netta: da quel momento in avanti le parole “emergenza climatica” e “crisi climatica” avrebbero preso il posto del più cauto “cambiamento”, sottolineando la pericolosità e l’urgenza di comunicare il riscaldamento globale di origine antropica.
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L’obiettivo era chiaro, come aveva scritto la caporedattrice Katharine Viner: “Vogliamo assicurarci di essere scientificamente precisi, ma allo stesso tempo comunicare ai nostri lettori che si tratti di una causa importante”, per spingerli poi ad agire così da diminuire il loro impatto ambientale.
La caporedattrice del quotidiano britannico scrisse: “Vogliamo assicurarci di essere scientificamente precisi, ma allo stesso tempo comunicare ai nostri lettori che si tratti di una causa importante”
Anche i movimenti ambientalisti come Fridays for future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione avevano adottato la stessa strategia, scegliendo parole che rimandassero più al concetto di catastrofe. A cinque anni da quella scelta, uno studio pubblicato sulla rivista internazionale Climatic Change dimostra che forse sarebbe meglio riabilitare il vecchio termine “cambiamento climatico”.
Capire la reazione che alcune parole hanno sulle persone è importante non solo per indirizzare verso la comprensione di alcuni fenomeni complessi, ma anche per sollecitare azioni che ne contrastino gli effetti più pericolosi. Alcuni studi condotti dal 2004 al 2014 hanno dimostrato che inizialmente "cambiamento climatico" era meno popolare rispetto all'espressione “riscaldamento globale”, ma che la situazione si è ribaltata nel 2016.
Negli anni successivi, con scelte forti come quella del Guardian, al vocabolario di giornalisti e media si sono aggiunte nuove espressioni come "crisi climatica", "emergenza climatica" e "giustizia climatica".
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Ed eccoci allo studio. Quattro ricercatori della Carolina del Sud hanno chiesto a un campione composto da più di 5mila statunitensi di diversa convinzione politica, età ed estrazione sociale quali fossero le espressioni a loro più familiari, quale dava loro più preoccupazione, quale invece trasmetteva più urgenza o li portasse a supportare policy green o a mangiare meno carne.
Da uno studio statunitense emerge che "giustizia climatica" è il termine meno gettonato. E lo stesso vale per urgenza
I risultati hanno dimostrato che per la grande maggioranza di coloro che si sono identificati come democratici, repubblicani o indipendenti i termini "cambiamento climatico" e "riscaldamento globale" erano i più familiari. Il più lontano, invece, rimaneva "giustizia climatica", specialmente per i repubblicani. Per quanto riguarda l’effetto preoccupazione, è stata rilevata una sensibilità maggiore da parte dei democratici. I termini sono tutti più o meno allo stesso livello, tranne uno, "giustizia climatica", il meno gettonato. Stessa cosa, in linea di massima, per quello che riguarda l’urgenza.
"Giustizia climatica" è un’espressione che rimane di nicchia, utilizzata per indicare gli effetti estesi dei cambiamenti climatici che minacciano non solo gli habitat, ma anche l’uguaglianza, i diritti umani e collettivi. Secondo gli studiosi, è possibile che il termine risulti più polarizzante una volta che diventa più familiare, come già accaduto nel Regno Unito.
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Andando oltre lo studio, c’è da chiedersi allora se un ragionamento simile vada fatto anche in Italia, soprattutto dentro ai movimenti che si battono per denunciare la crisi climatica. Fridays for future, Extinction rebellion e Ultima generazione utilizzano il termine per le loro campagne comunicative, che però rischiano di arrivare solo a un pubblico già alfabetizzato sul tema.
Intanto il conto alla rovescia continua: il climate clock, l’orologio che da Union Square a New York segna quanto tempo manca prima che gli effetti del cambiamento climatico sul pianeta siano irreversibili, è arrivato a 4 anni e 333 giorni. Un monito, come a ricordarci che insieme alle parole serve cambiare anche il modo di agire.
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