19 giugno 2024
Le parole sono importanti. Chi parla male, pensa male. E vive male. Lo ripeteva, anzi lo urlava, Nanni Moretti, seduto a bordo piscina in Palombella Rossa, durante un acceso dialogo con una giornalista, creando così un tormentone che molti usano ancora. Scegliere di usare una parola anziché un’altra significa scegliere la comunità a cui appartenere o non appartenere. Significa compiere un’azione e attivare un potere che può essere esercitato (da chi informa) oppure subìto (da chi viene informato). Lo spiega bene Manuela Manera, docente e libera ricercatrice su studi di genere e linguistica, nel suo recente saggio Fa differenza. Comunicazione corretta e lotta di classe (Edizioni Gruppo Abele). Gli atti linguistici generano conseguenze concrete e non è lo stesso se continuiamo a definire “delitto passionale” un “femminicidio”, o se bolliamo come “eco-vandali” gli “attivisti per il clima”, o chiamiamo “clandestini” i “profughi” o i “migranti”. Oppure se riteniamo la variante al femminile per i nomi delle professioni una diminuzione del prestigio lavorativo. Perché la lingua indirizza le scelte, modella la forma dei pensieri, dell’immaginario collettivo, del mondo. E fa la differenza.
Manera, cosa pensa di come comunicano mediamente i nostri rappresentanti politici e istituzionali?
Oggi chi detiene il potere politico non agisce in modo molto responsabile: spesso comunica in modo poco o per nulla chiaro, corretto e rispettoso. Non mi riferisco solo alla scelta di un registro linguistico adeguato, ma di un comportamento complessivo che tenga conto anche degli effetti delle espressioni linguistiche. Che sia attento ai significati impliciti, alle deduzioni e alle conseguenze non solo delle parole, ma anche del tono della voce e delle formule utilizzate. Non tutti hanno la capacità di garantire una pluralità di punti di vista, anzi direi che in questo momento storico questa pluralità non è garantita affatto.
Oggi chi detiene il potere politico non comunica in maniera responsabile: non usa espressioni chiare, corrette e rispettose
Qualche esempio?
Passa dalle parole la criminalizzazione delle persone che stanno lottando per i diritti e per la difesa del clima. È breve il passo tra le dichiarazioni dei politici del governo, che parlano di eco-vandali e delinquenti, e la legittimazione di fogli di via, identificazioni e altri provvedimenti. Mi viene in mente anche la ministra Eugenia Roccella che, più volte contestata, in uno slancio di vittimismo ha urlato alla censura, usando parole che hanno l'effetto di denigrare le contestazioni, che invece esprimono una forma di dissenso e diritti riconosciuti dalla Costituzione. È proprio questo mescolare parole e concetti, raccontare in modo disonesto, ammiccante, pretestuoso, che a volte indirizza le persone a costruirsi un immaginario non corrispondente a quanto accade. È frutto del modo di pensare ed esprimersi di questa classe politica se oggi le lotte sociali vengono descritte prevalentemente con termini criminali.
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Perché sostiene che l’approccio critico alle narrazioni sia un privilegio di classe?
La conoscenza è strettamente collegata a una questione di classe. Lo è sia per i percorsi scolastici che una persona può seguire, sia per i contesti familiari e sociali in cui si cresce. I media prevalenti, come radio e televisione, trasmettono notizie spesso in modo superficiale, approssimativo, senza contraddittorio, senza fornire quel bagaglio di dati utile per capire davvero. Di fatto, bisogna chiedersi chi ha la possibilità di ricevere un’informazione corretta e complessa? Chi detiene gli strumenti per decostruire narrazioni fuorvianti, meccanismi persuasivi, inganni che vengono perpetrati attraverso le parole? Solamente persone che hanno l’opportunità di potersi dedicare a percorsi alternativi rispetto a quelli più semplici. A mio parere, la lotta per una comunicazione corretta e per un servizio pubblico di informazione all’altezza del suo compito è una lotta di classe.
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Anche gli eufemismi sono strumenti per condizionare il racconto della realtà?
Quello per eufemismi è un “parlare ovattato”, una forma di nascondimento. I motivi per usarli sono diversi. Ad esempio per non ferire, quando si deve comunicare la morte di una persona e si ricorre a perifrasi come “è venuto a mancare, è volato in cielo”. Gli eufemismi possono nascondere dei tabù. Penso alle espressioni creative spesso utilizzate per riferirsi alla sfera sessuale o alle mestruazioni. Esiste poi un particolare uso degli eufemismi, che non va a proteggere chi riceve la notizia e non è collegato ai tabù, ed è quello che si articola in una forma di protezione del potere e del proprio privilegio. Un settore in cui si assiste a un'operazione di camuffamento è quello lavorativo, in cui da tempo ormai la parola “padrone” è stata sostituita da “imprenditore” o “datore di lavoro”. Si sostituiscono espressioni dirette come "licenziamenti" con quelle velate come “piano di alleggerimento” o “adeguamento del personale”. Tali scelte lessicali servono a nascondere l'ingiustizia nei confronti di chi è in una posizione subalterna, concorrono a evitare il riaccendersi della lotta di classe. È un modo per esercitare il controllo sulla narrazione e quindi continuare ad assicurarsi la posizione di potere.
Come si può riuscire a fare una comunicazione diretta e rapida, come i nuovi mezzi di comunicazione richiedono, senza cadere nella trappola di slogan, stereotipi, frasi fatte?
Nell’ambito del giornalismo e in molte professioni che hanno a che fare con la comunicazione, la rapidità della notizia è un ostacolo che non permette una riflessione, un confronto. Quando si scrive la notizia con limiti legati allo spazio e alla velocità si possono evitare espressioni non appropriate solo se si ha la consapevolezza degli stereotipi e si è formati su argomenti specifici. C’è poi il tema del clickbaiting: a volte non è una mancanza di competenze, ma una scelta, quella di proporre notizie e titoli sensazionalistici e scandalosi che possano ottenere visualizzazioni e condivisioni.
Proporre notizie e titoli sensazionalistici e scandalosi spesso è una scelta per ottenere visualizzazioni e condivisioni
Oggi ci si divide molto anche sulla narrazione della guerra a Gaza e il ricorso al termine genocidio…
La lingua è una questione politica perché la nostra visione del mondo passa attraverso la costruzione di narrazioni. Convincere qualcun altro a usare certi termini anziché altri significa trasmettergli un modo di posizionarsi nel mondo. In questo senso è chiaro che definire “guerra di difesa” un conflitto che va avanti da anni e non nasce il 7 ottobre, impedendo simmetria nell’informazione, è un modo per costruire una visione orientata di quanto accade. Un altro esempio più vicino a noi è la rinominazione di gruppi contrari all’aborto come “pro-life”, per evocare una contrapposizione tra chi vuole e chi non vuole la vita degli embrioni e quindi, in modo fuorviante, la vita in generale. Altro esempio: pronunciare il termine femminicidio, anziché semplice omicidio, serve a fare riferimento alla cultura dello stupro, a interrogarsi su un problema sistemico e non individuale. Non si parla più solo di un episodio, ma di un fenomeno.
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La lingua è anche uno spazio di violenza?
Attraverso le parole si può essere aggressivi in tanti modi diversi. Quelli diretti e subito identificabili come l’hate speach, l’insulto, l’aggressione verbale. Poi ci sono modi infimi come la manipolazione psicologica o il gaslighting (la manipolazione che induce la vittima a mettere in dubbio i pensieri e le percezioni). Però con le parole si può anche reagire. La denuncia che passa attraverso le parole, può essere collettiva, come successo con il movimento #MeToo che ha agito proprio attraverso le parole e grazie alla potenza dei social ha tenuto insieme le risposte alle molestie e aggressioni subite da tante donne. La violenza può essere anche raccontata e diventare una testimonianza che crea alleanze. Infine, anche le Costituzioni sono scritte con le parole e sanciscono diritti. Quindi la lingua è lo spazio in cui si può esercitare la violenza come anche reagire, è un luogo di lotta, di riscatto sociale e politico, di rivendicazione e di denuncia.
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