Foto di Karsten Winegeart/Unsplash
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Stranieri in carcere: poveri e invisibili, non è predisposizione al crimine

Nelle carceri italiane il 30 per cento circa dei detenuti è di origini straniera, che spesso commettono reati legati alla loro condizione di estrema precarietà sociale. Tanti sono "irregolari", vivono di espedienti e diventano facile manovalanza per le organizzazioni criminali gestite per lo più da italiani

Andrea Oleandri

Andrea OleandriResponsabile comunicazione di Antigone

30 agosto 2024

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Nelle carceri italiane il 30 per cento circa delle persone detenute è di origini straniera. Un dato che nel tempo si è mantenuto pressoché costante – con una leggera flessione (-5,7%) negli ultimi 15 anni – ma che continua a essere raccontato in modo distorto da alcuni organi di informazione e da una certa politica abile a parlare alla pancia della gente.

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In molti casi le persone straniere si trovano in carcere per avere commesso reati legati in qualche modo alla loro condizione di estrema precarietà sociale: reati contro il patrimonio o violazione della legge sulle droghe. Tanti sono “irregolari” sul territorio italiano, vivono di espedienti e diventano facile manovalanza per le organizzazioni criminali gestite per lo più da italiani, come dimostra il dato sulle persone che al 30 giugno 2024 si trovavano recluse per reati di stampo mafioso: 11.775 italiani e appena 278 stranieri. 

La rete che non c'è

Per una persona straniera è più facile finire dentro per l’assenza di reti familiari o di sostegno che garantiscano la possibilità di accedere a una misura alternativa, come ad esempio la detenzione domiciliare. Così come sono in percentuale maggiore rispetto agli italiani coloro che si trovano in custodia cautelare, in attesa di una condanna di primo grado. Inoltre, in carcere vi sono molte persone straniere condannate a pene molto basse, anche solo di poche settimane.

Per una persona straniera è più facile finire dentro per l’assenza di reti familiari o di sostegno che garantiscano la possibilità di accedere a una misura alternativa, come ad esempio la detenzione domiciliare

Quando si parla di stranieri in carcere sarebbe quindi più corretto parlare di esclusione sociale più che di una qualche predisposizione al crimine. Basti pensare che se gli stranieri rappresentano il 30 per cento del totale dei reclusi, il 50 per cento del totale degli italiani è composto da persone provenienti da quattro regioni – Puglia, Sicilia, Campania e Calabria – tutte caratterizzate da alti livelli di povertà, disoccupazione e da una forte presenza di organizzazioni criminali.

Servizi e diritti negati

Nelle carceri nostrane la presenza di mediatori culturali è al di sotto delle necessità e in molti istituti non esistono proprio. Lo stesso vale per gli psichiatri, mentre mancano del tutto gli etno-psichiatri. Di conseguenza, stati di profondo disagio non riescono neppure a essere intercettati e non deve stupire che oltre la metà dei suicidi nelle carceri coinvolga persone straniere.

“Stati di profondo disagio non riescono a essere intercettati e non deve stupire che oltre la metà dei suicidi nelle carceri coinvolga persone straniere”

Un altro problema per gli stranieri riguarda il diritto di praticare la propria religione: numerosi detenuti sono di fede islamica ma l’accesso degli Imam nei penitenziari non sempre è garantito. Le persone detenute sono così costrette a organizzarsi tra loro, scegliendo chi deve condurre la preghiera e pregando in spazi ricavati all’interno di stanzette adibite ad altre attività.

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Più integrazione, meno detenuti

Eppure i percorsi di regolarizzazione e integrazione sociale funzionano anche a livello di sicurezza, come dimostra il caso dei detenuti rumeni. Alla fine del 2002 – anno della liberalizzazione dei visti turistici in Romania, che ha accresciuto il fenomeno migratorio da quel paese – il tasso di detenzione dei rumeni in Italia era dell’1 per cento. Alla fine del 2010 era sceso fino allo 0,4 per cento, mentre nel 2020 – con una presenza di rumeni sul territorio in costante crescita e di poco superiore al milione di unità – il tasso di detenzione si era ulteriormente dimezzato, risultando pari allo 0,2 per cento. Un trend simile ha coinvolto un’altra grande comunità presente in Italia, quella albanese.

In carcere a casa loro

Periodicamente, c’è chi propone di mandare i detenuti stranieri a scontare la pena nel loro paese d’origine. Una ricetta semplicistica, che non tiene conto di questioni morali, pratiche e tecniche. In primo luogo, gli accordi di riammissione vanno stipulati con i paesi di provenienza, una cosa non semplice e tutt’altro che scontata. È difficile che un paese povero, con poche risorse, accetti di riaccogliere persone che andrebbero comunque a gravare sulle già scarse risorse dello Stato.

C’è chi propone di mandare i detenuti stranieri a scontare la pena nel loro paese d’origine. Una ricetta semplicistica, che non tiene conto di questioni morali, pratiche e tecniche

C’è poi la seria possibilità di violare il principio di uguaglianza, provocando un trattamento differenziato per persone che hanno commesso lo stesso reato. Un altro aspetto di cui tenere conto riguarda il reato di tortura, introdotto nel codice penale italiano nel 2017, che ha portato alla modifica dell'articolo 19 del Testo unico dell’immigrazione, vietando le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che nei paesi di provenienza la persona rischi di essere torturata.

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Benché la situazione delle carceri italiane non sia tra le più rosee, esistono paesi dove le violazioni della dignità delle persone detenute è strutturale. Per questo espellere persone verso questi paesi non è una soluzione possibile né praticabile. Senza dimenticare che molte persone straniere vivono in Italia da anni e qui hanno le loro famiglie. Ecco allora che il pieno recupero sociale per chi ha commesso un reato diventa un orizzonte necessario, anche per evitare di privare le famiglie di un loro componente.

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