Un detenuto al carcere di Torino Lorusso e Cotugno. Foto di Marco Panzarella
Un detenuto al carcere di Torino Lorusso e Cotugno. Foto di Marco Panzarella

Carcere, detenuti ai margini della società. Ma vince sempre il populismo penale

Un'alta percentuale delle persone recluse negli istituti italiani è straniera, vive in condizioni economiche precarie, ha un basso livello di istruzione e fa uso di sostanze. Bisognerebbe intervenire per risolvere queste criticità, ma la risposta della politica è sempre la stessa: repressione

Andrea Oleandri

Andrea OleandriResponsabile comunicazione di Antigone

24 novembre 2023

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“Troppe poche le carceri per rinchiudervi tutti i poveri del mondo”, scrisse il poeta e saggista polacco Czesław Miłosz nel suo libro Il cagnolino lungo la strada. La stessa frase apre Sociologia della povertà di Enrica Morlicchio, professoressa ordinaria di Sociologia dello sviluppo all’università di Napoli Federico II.

Il ministro Nordio e le promesse non mantenute sul carcere

Non esistono grandi raccolte di dati sulle persone che entrano negli istituti di pena, ma certe informazioni fanno capire come ci sia un collegamento diretto tra esclusione, marginalità sociale e carcere. Riguardo alla provenienza di chi è recluso, circa il 32 per cento risulta essere straniero. Questo, puntualmente, porta alcuni a parlare di una propensione maggiore al crimine tra chi proviene da un paese estero. In effetti il 32 per cento sul totale è un dato molto alto se rapportato a circa l’8 per cento di persone straniere sul totale della popolazione libera. 

Carcere e povertà

Bisogna tenere conto di un altro aspetto: al 30 giugno 2023, il 45,2 per cento delle persone recluse proviene da quattro regioni: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. Se rapportiamo questo dato ai soli detenuti italiani, si evince che il 67,6 per cento dei reclusi proviene da questi territori. Seguendo il ragionamento di alcuni, dovremmo quindi sostenere che chi arriva da queste regioni ha una propensione maggiore a un comportamento criminale e deviante. Del resto si tratta dei territori dove affondano le radici i principali gruppi criminali attivi in Italia (e non solo).

Il 45,2 per cento delle persone recluse proviene da quattro regioni: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria

Se analizziamo i dati sui redditi individuali, su base regionale, pubblicati dal ministero dell’Economia e delle finanze, relativi al 2021, vediamo che Calabria, Puglia, Sicilia e Campania occupano gli ultimi posti, con la Calabria fanalino di coda. Forse allora esiste una questione che va oltre il tema della possibile e lombrosiana propensione criminale, che riguarda una situazione di povertà cronica.

Carcere e livello di istruzione

Oltre al dato economico, esiste quello sui titoli di studio. Dalle statistiche del ministero della Giustizia si apprende, infatti, come delle 29.550 persone detenute censite, sulle 57.525 presenti allo scorso 30 giugno, siano più gli analfabeti e le persone alfabetizzate ma senza titolo di studio (rispettivamente 820 e 513) dei laureati (600). Inoltre, solo il 16,6 per cento dei censiti (4.917) è in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore, mentre la maggior parte hanno raggiunto quello inferiore (17.159) e quasi 5mila solo la licenza di scuola elementare. 

Realtà sociali, c'è bisogno di una nuova Liberazione

Medie che non si registrano nel mondo libero dove, secondo i dati Istat del 2020, il 63 per cento circa della popolazione ha un diploma di scuola superiore e circa il 20 per cento ha ottenuto un titolo universitario. Chi è in carcere, dunque, ha generalmente titoli di studio molto più bassi e alle spalle situazioni di abbandono scolastico, o comunque un percorso incerto. 

Cooperazione contro precarietà e disuguaglianze

Ancora una volta questo aspetto non può non essere messo in relazione con variabili economiche e sociali, laddove i dati Istat del 2020 ci dicono che, su una media nazionale di abbandono scolastico del 13,1 per cento, il Sud si attesata al 16,3 per cento. Dunque, è più facile che laddove ci siano situazioni di povertà, ci sia più elusione scolastica e più persone che commettono reati. Cosa che vale sia per gli italiani e sia per gli stranieri, che hanno generalmente redditi e tassi di istruzione più bassi.

Carcere e dipendenze

In questo quadro complessivo si inserisce anche il dato relativo alle dipendenze, che riguarda circa il 30 per cento delle persone oggi recluse in carcere. Se il consumo di sostanze interessa trasversalmente le differenti fasce sociali, l’impatto delle stesse su chi non ha risorse economiche per acquistarne può essere maggiore. Tra i dati registrati dall’amministrazione penitenziaria non ne esiste uno specifico che lega la persona con questa forma di dipendenza al reato commesso, tuttavia guardando all’esperienza sul campo di Antigone, non è difficile immaginare come questi possano essere legati a quei “reati di sussistenza” (rapine, furti, spaccio), compiuti per acquistare le sostanze.

Spaccio e consumo di sostanze, il carcere non è la soluzione

Se il carcere dunque ha a che fare con povertà ed esclusione sociale, sarebbe utile intervenire su queste ultime due, piuttosto che su un allargamento dei confini del primo. Invece, negli ultimi anni, quest’ultima è stata la tendenza principale. Andata, peraltro, costantemente ad ampliarsi. Come scrive il giurista Luigi Ferrajoli: “Essendo stata la sicurezza sociale aggredita dalle politiche di riduzione dello Stato sociale e di smantellamento del diritto del lavoro, le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale con la sua mobilitazione contro il deviante e il diverso”. 

"Le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale con la sua mobilitazione contro il deviante e il diverso”, dice il giurista Luigi Ferrajoli
 

Con un duplice effetto, sostiene Ferrajoli, cioè l’identificazione illusoria tra sicurezza e diritto penale e la rimozione, dall’orizzonte della politica, di politiche sociali di inclusione. In questo senso vanno anche i due più recenti provvedimenti del governo, il decreto Caivano e il pacchetto sicurezza, che rientrano appieno nella categoria del populismo penale, centrale per lo stesso Ferrajoli, laddove si persegue proprio la “criminalità di sussistenza”, commessa da immigrati, disoccupati e soggetti emarginati (tutte categorie di persone e reati perseguite dai provvedimenti governativi), assecondando “il riflesso classista e razzista dell’equiparazione dei poveri, dei neri e degli immigrati ai delinquenti”. 

Caivano, la punizione non è la cura

Un atteggiamento che porta consensi nel breve periodo, ma che non interviene sulle cause profonde della criminalità. Non è un caso che ormai da 15 anni tutti i governi legiferino sulle stesse materie spostando sempre più oltre i paletti della repressione, senza riuscire però a creare quella sicurezza che, il solo intervento penale, del resto non può garantire. Mentre, come ci raccontano le statistiche dell’Istat, la povertà e la disuguaglianza sociale nel Paese crescono.

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