31 ottobre 2024
Questa non è un’analisi, tanto meno una spiegazione: sono soltanto alcune brevi considerazioni a margine di un episodio riguardante un diciassettenne che a Paderno Dugnano (Mi), nella notte tra il 31 agosto e il 1° settembre 2024, ha ucciso a coltellate il fratello minore, la madre e il padre. Dell’episodio qui non si dirà altro se non che alcuni, vicini e parenti, hanno descritto la famiglia come del tutto normale, una famiglia a cui in apparenza non mancava nulla, una famiglia perfetta. Nonostante la tragedia, non intendiamo affatto smentire la normalità e nemmeno, se si vuole, la perfezione.
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La prima considerazione riguarda il “noi” e il fatto che per la nostra società per eccellenza coincide di solito con la famiglia, a cui spesso aggiungiamo l’aggettivo “naturale”. Quando diciamo noi, pensiamo quasi sempre a un qualcosa di intrinsecamente e necessariamente positivo. Beninteso, un noi (una cosca mafiosa, per esempio) può anche compiere atti criminali, ma un conto è quello che fa all’esterno, un altro quello che è all’interno. E se è un noi è pur sempre una comunità, un luogo a sé stante, riparato, separato, protetto, unito, coerente, solidale: un luogo dove rifugiarci, di fiducia e convivenza.
Nel 1936 un antropologo neozelandese, Raymond Firth (1901-2002), aveva intitolato la sua prima monografia etnografica sull’isola polinesiana di Tikopia We, the Tikopia (Noi, i Tikopia), espressione che riproduceva alla lettera un modo di dire usuale degli abitanti di quell’isola, "un’espressione che è dato cogliere costantemente sulle labbra della gente" – Matou, Nga Tikopia – e che rendeva il senso dell’unità e della positività del loro gruppo sociale, della loro comunità. Ma allora come spiegare la breccia nella sfera del noi? Quando i giovani vedevano all’orizzonte profilarsi un piroscafo, si gettavano con le loro minuscole canoe in mare aperto mettendo a repentaglio la loro vita. A questo proposito, Firth non parla soltanto del verificarsi di una breccia: egli si rende conto "dell’importanza di questa breccia nel chiuso della vita dell’isola".
Un attaccamento eccessivo isola il nucleo e compromette la buona riuscita dell'educazione
Rimaniamo ancora tra i Tikopia e consideriamo ora le loro famiglie: di tipo coniugale o nucleari, come le nostre. Immaginiamo una famiglia normale, perfetta, in cui le relazioni siano improntate a tenerezza e affetto, una famiglia a cui non manca proprio nulla. Firth rimane colpito dal tama fakapiki, dal costume del "figlio aderente", ovvero dalla norma secondo cui un figlio viene strappato dalla famiglia in cui è nato e ha vissuto i suoi primi anni per essere collocato in un’altra famiglia. Questo avviene non per rimediare a una situazione di difficoltà nei rapporti con i genitori, ma per impedire che si sviluppi un legame troppo stretto tra genitori e figli.
Leggi la rubrica dell'antropologo Francesco Remotti
Firth si era accorto che i Tikopia disponevano di una vera e propria teoria al riguardo, secondo la quale la calda intimità della convivenza famigliare può generare un attaccamento eccessivo, che tenderebbe a isolare la famiglia e a compromettere la buona riuscita dell’educazione del figlio. Occorre dunque procedere al taglio (motu), come dicono i Tikopia, ossia a un vero e proprio "svezzamento sociale" (secondo la felice espressione di Raymond Firth): staccare il figlio non soltanto dal seno materno, ma anche dal seno familiare. Non sarà certo un caso se le parole più dure e violente pronunciate da Gesù nei Vangeli siano rivolte al nucleo familiare. Il taglio dei Tikopia a proposito della famiglia non è forse simile alla spada con cui Gesù intende tagliare i rapporti familiari? Egli afferma di essere venuto non a portare la pace, ma la divisione all’interno della famiglia, poiché i nemici dell’uomo sono proprio quelli di casa sua (Luca 14, 25-26; 12, 51-53; Matteo 10, 34-36).
I difensori della famiglia tradizionale si guardano bene dal soffermarsi su queste terribili prese di posizione di Gesù, ma esse diventano assai più comprensibili se si tiene conto delle molte società in cui prevale l’idea del taglio, ovvero dell’importanza della breccia nel noi, in qualsiasi noi, a cominciare dal noi familiare. Non si tratta soltanto di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia e di costruire dei noi alternativi, in grado di fornire solidarietà nelle varie circostanze della vita (si pensi, per esempio, alle classi di età o gruppi di coetanei che accompagnano l’individuo lungo le diverse tappe della sua esistenza). Piuttosto si tratta di fare sì che ogni noi sia imperfetto, programmaticamente segnato da una qualche breccia, così da impedire che come una sfera si richiuda pericolosamente su sé stesso.
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