11 settembre 2024
Ho esitato per giorni finché ho capito di non poter più rimandare, tantomeno eludere: quelle reazioni di sgomento, sconforto e rabbia chiedevano di essere espresse. Mi riferisco alla strage di Paderno Dugnano, avvenuta nella notte tra sabato 31 agosto e domenica 1 settembre. Lo chiedevano, anzi lo esigevano come tutto ciò che riguarda parti profonde e oscure dell’umano, a cominciare dal mio.
Beninteso, i miei genitori sono morti per malattia e con la mia unica sorella ho un rapporto affettuoso nonostante o forse anche grazie alla nostra diversità. Ma il caso, chiamiamolo così, ha voluto che proprio sabato 31 agosto, poche ore prima che il diciassettenne Riccardo uccidesse a coltellate padre, madre e fratellino nella villetta di una località a nord di Milano, mi trovassi nel cimitero di Gorizia a cercare il loculo delle ceneri di mia madre, lì trasferite da Milano ventidue anni fa perché a Gorizia la mamma è nata e, sessantadue anni fa, mi ha partorito.
"Dopo la morte di mia madre, ho riflettuto sull’adolescenza, nel presentimento che in quel periodo della vita accada qualcosa di cruciale e imprevedibile, non escluso, come nel caso di Riccardo, l’uccidere padre, madre e fratello"
Non ho ucciso mia madre ma le ho causato angosce indicibili quando avevo la stessa età di Riccardo mettendola di fronte a tre scelte – la prima dichiarata, le altre due prese e praticate a sua insaputa – che hanno sconvolto la sua esistenza e posto tra noi una distanza, un’impossibilità di comunicare e capirci che le sembrava tanto più crescere quanto più si sforzava di colmarla. A diciassette anni ho deciso di abbandonare il liceo che pure frequentavo con ottimi voti, ho intrapreso la via del digiuno sino a sfiorare l’anoressia e il 2 aprile 1980, venti giorni dopo essere entrato nella cosiddetta “maggiore età” mi sono fatto iniettare la prima dose di eroina. L’angoscia di mia madre si è protratta per lunghissimo tempo e non oso immaginare cosa sia stato per lei, nei miei quasi quattro anni di vita tossica, randagia e fuorilegge, non sapere nulla di me e, quando squillava il telefono di casa, alzare la cornetta nel timore di ascoltare dall’altra parte una voce che, fredda, la informava del mio arresto o, compunta, del mio decesso.
Ha indicibilmente sofferto e non basta averle dato la gioia di vedermi infine “risanato” – per quanto affetto da una malattia all’epoca incurabile – a saldare il debito morale e affettivo che sento nei suoi riguardi per tutto quello che ha fatto nella speranza prima di proteggermi, poi di salvarmi. Non basta ed è proprio quest’incolmabile debito di riconoscenza ad avermi indotto dopo la sua morte per malattia avvenuta il 21 dicembre 2001 a riflettere sull’adolescenza, la mia e quella in generale, nel presentimento che in quel periodo della vita accada qualcosa di cruciale e, nei suoi sviluppi, imprevedibile, non escluso, come nel caso di Riccardo, l’uccidere a coltellate padre, madre e fratello.
E torno appunto alla strage di Paderno Dugnano, allo sgomento suscitato dalla notizia e alle successive reazioni di sconforto e rabbia provocate dalla lettura di alcune analisi di riconosciuti esperti di “patologie psichiche” interpellati a riguardo da un importante quotidiano. Analisi che, con diversi tagli e accenti, hanno toccato tutte il tema dell’adolescenza.
Eccone un sintetica summa:
Confesso che a questa colta citazione kantiana sulla fatale imperfezione della natura umana ho avuto un moto di sarcasmo: "Ite, missa est – ho pensato – la messa è finita e potete mettervi l’anima in pace: la natura umana è all’origine peccatrice, potenzialmente feroce, e tale rimane. Con le sue coltellate Riccardo non ha fatto che confermarlo una volta di più".
Questo ho pensato avvertendo nel contempo un impulso irresistibile a reagire, esprimere il mio sconcerto, incurante se le mie parole saranno comprese o anche solo lette: mal che vada – mi sono detto – scriverle mi servirà a trovare spunti utili per i miei prossimi incontri nei licei, luoghi nei quali è possibile imbattersi anche in “fortezze vuote”, per dirla col Bettelheim citato da Cancrini, giovani all’apparenza normali che dietro modi impassibili, flemmatici, possono covare fantasie malvage e persino delittuose contro genitori dispotici perché "il grande tema della adolescenza è trovare la propria libertà svincolandosi dalle catene dei legami primari" (Recalcati) e perché quelle "fantasie di soppressione nascono dal senso di oppressione che gli adolescenti provano in quella fase della vita" (Ammaniti).
L'adolescenza è l'età dello specchio
"I vostri non sono disturbi ma turbamenti, anzi perturbamenti. E tantomeno disagi"
Eccomi dunque ancora una volta a scrivere di adolescenza nella convinzione sempre più netta che l’analisi psico-socio-logica la riduca a schemi e formule che nulla hanno a che fare con la concreta esperienza dell’adolescente, con i suoi desideri e perturbamenti. Già, perturbamenti. Ricordo quando, parlando con alcuni studenti, li ho invitati a guardarsi da chi, parlando di adolescenza, usa parole come “disturbo” o “disagio”: "I vostri non sono disturbi ma turbamenti, anzi perturbamenti. E tantomeno disagi: disagio è una parola ridicola che fa pensare a uno stato di scomodità, fastidio, mentre il vostro problema non è accomodarvi ma trovare una relazione con un mondo al quale vi sentite estranei". Ricordo con emozione il lampo di gratitudine che illuminò il loro sguardo come a dire: finalmente un adulto che ci parla con parole nelle quali ci riconosciamo, parole che dicono davvero di noi.
Parole… Mi rendo conto di averne già scritte tante ma non è un tema, questo, liquidabile con diagnosi psichiatriche, inviti al “dialogo” e al monitoraggio di disturbi e disagi, o mesti riconoscimenti del “legno storto” dell’umano.
Altrove, anche su lavialibera, ho scritto quanto sarebbe necessario dimenticare le teorie, sospendere giudizi e costruzioni concettuali, accantonare i repertori di definizioni e categorie per arrivare a una fenomenologia dell’adolescenza che permetta all’adolescenza medesima di rivelarsi attraverso un racconto degli incontri, scoperte ed esperienze dirompenti che la caratterizzano come età unica e fondativa: l’incontro con la solitudine, la scoperta del proprio corpo, l’esperienza del desiderio e il primo, conturbante, riconoscimento del proprio essere mortali.
Adolescenza, per i giovani è l'età del disordine
Sono queste esperienze e incontri a costituirci come individui: l’adolescente è l’umano che passa da una vaga ma rassicurante percezione di essere, a una precisa e perturbante consapevolezza di esistere. È l’individuo che sente di poter dire per la prima volta “io sono” e associare quella dichiarazione di esistenza ma non ancora d’identità a una serie di connotazioni che la rendano il più possibile evidente affinché il mondo di chi già ha potuto dire “io sono” si accorga di lui e lo riconosca come degno membro della comunità.
È questo novizio dell’esistere, l’adolescente, ma può essere anche il giovane che, invece di addobbare di attributi l’io appena sbocciato – patetici corredini del neonato che è ma di cui, al contempo, si sente genitore – si sofferma su quel sentimento di esistere interrogandosi sugli innumerevoli risvolti che implica e sulle enormi questioni che solleva.
Guardarsi soprattutto attorno o guardarsi soprattutto dentro: è questo, da sempre, il dilemma di fronte al quale si è trovato l’adolescente. Da sempre o quantomeno da quando, alla fine del Settecento, la gioventù è diventata una categoria dello spirito. È da questo dilemma che sono nati i pensieri, i versi e le avventure di Byron e Novalis, di Kleist e di Giacomo Leopardi.
"Oggi l’adolescente si trova ancora davanti a due vie, solo che una è un’affollata ma veloce e diramatissima autostrada che gli procura l’illusione di arrivare dappertutto con un clic, l’altra un sentiero deserto che conduce in regioni ignote"
In questi ultimi decenni, però, il dilemma ha assunto una forma più ambigua, meno ultimativa, cambiando la geografia psichica ed emotiva dell’adolescente. A lungo essere adolescenti ha significato trovarsi di fronte un’alternativa secca, quasi un “aut aut”: conformarsi oppure ribellarsi. Ossia accettare di percorrere una strada già aperta e consolidata dai predecessori nella garanzia di diventare, come loro, rispettosi e rispettabili membri della comunità. Oppure trovare una strada propria anche a costo di vivere ai margini, diventare outsider e cercare, giorno dopo giorno, il modo di tirare avanti. Scelta difficile che però, via facendo, si è fatta strada, attirando un numero sempre maggiore di adolescenti animati da desideri e aspirazioni impossibili da realizzare nella società dei padri, delle madri e degli adulti tutti.
La clamorosa frattura culturale ’68 nasce da qui, dal confluire e diventare massa di insofferenze e turbolenze individuali. Poi – come quasi sempre accade quando, troppo o del tutto rivolto all’esterno, il desiderio di cambiamento esclude l’introspezione e l’evoluzione personali – la rivolta è diventata a sua volta un percorso obbligato ed è potuto accadere, solo dieci anni dopo, che un adolescente come il sottoscritto trovasse il mondo dei coetanei con i suoi slogan e megafoni, cortei e richiami alla “militanza” non meno uniforme, grigio e imperativo di quello degli adulti.
Ebbene quell’alternativa tra tradizione e rivoluzione oggi non esiste più. Nella società del mercato governata dal dio denaro, oggetto di un culto ecumenico e transgenerazionale, l’adolescente si trova ancora davanti a due vie, solo che una è un’affollata ma veloce e diramatissima autostrada che gli procura l’illusione di arrivare dappertutto con un clic, l’altra un sentiero deserto che conduce in regioni ignote e magari abitate da presenze inquietanti che si aggirano per selve oscure. Queste vie si chiamano la prima, affermazione di sé, la seconda conoscenza di sé.
Devianza giovanile, una parola indecente
"Procurando il brivido di sentirsi al centro dell’attenzione, di sentirsi importanti per altri che, perlopiù, ti esprimono il loro apprezzamento a patto di avere in cambio il tuo, i “social” sono il mezzo che ha escluso la conoscenza di sé"
Il dramma dell’adolescente, oggi, nasce dall’inavvertito obbedire all’imperativo dell’autoaffermazione anche quando un turbamento o un’angoscia gli offrono l’occasione di guardarsi dentro e iniziare a riflettere su quel tale, lui stesso, che smania tanto per farsi notare. Il dramma dell’adolescente è l’acquiescenza alle leggi del mercato – despota seduttivo dunque non riconosciuto tale – non solo nei momenti di benessere o euforia ma anche quando il dubbio di vivere una vita impropria potrebbe condurlo, vinto il timore di appartarsi, sulla strada della conoscenza, del “conosci te stesso” che alimenta il desiderio di una vita autentica, capace di esistere anche senza seguire o contestare modelli imposti o proposti.
L’epoca dell’egocentrismo, degli individui che si mettono in scena e in vendita perché solo così s’illudono di poter colmare un bisogno di riconoscimento che solo può placare la conoscenza e la cura di sé, ha risucchiato anche l’adolescenza nel suo desolante teatro dove tutti vogliono essere attori e nessuno spettatore.
La questione dei “social” e dei danni incalcolabili che possono provocare in menti acerbe e suggestionabili sta tutta qui. Procurando il brivido di sentirsi al centro dell’attenzione, di sentirsi importanti per altri che, perlopiù, ti esprimono il loro apprezzamento a patto di avere in cambio il tuo, i “social” sono il mezzo che ha escluso la conoscenza di sé dall’orizzonte psichico di miliardi di adolescenti, distraendo le loro vite per intrappolarle nella convinzione che non valgano nulla se non diventano oggetto d’interesse pubblico.
Ismael, un giovane autore di reato, racconta: "La felicità non è quella finta dei social"
La parola “autostima”, così in voga e usata come concetto chiave anche dai cosiddetti esperti del “disagio psichico”, è un termine fuorviante e pericoloso perché fare una stima di sé significa comunque vedersi con gli occhi di un pubblico e considerare i suoi criteri di giudizio come i soli validi. Cioè di fatto consegnarsi a una vita conforme dunque prima insoddisfatta e poi infelice perché scissa dalla propria unicità, dalla propria incomparabile, non valutabile, diversità.
Giovani "drogati" di psicofarmaci e indifferenza
Non di stima ma di cura di sé, ha bisogno l’adolescente (e sorvolo sull’enorme equivoco, alimentato in primis sempre dai cosiddetti esperti, sul termine “narcisismo”: a differenza dell’egocentrico, l’adolescente narcisista rifiuta le lodi e le attenzioni del mondo nella tragica aspirazione di amarsi da sé, di trovare godimento e riparo nel proprio abbraccio. Io lo sono stato, quell’adolescente, e il mio rifiuto dell’abbraccio del mondo mi ha portato dritto nelle braccia dell’eroina, unico mondo che sapesse amarmi totalmente e incondizionatamente, come da sempre avevo desiderato).
Riccardo… Sono dell’idea che Riccardo – so che ciò che sto per scrivere susciterà l’indignazione di molti – sia non l’autore ma solo l’esecutore di quegli omicidi. Dal punto di vista penale non cambia nulla perché l’esecuzione implica comunque la responsabilità, ma da quello conoscitivo molto perché la distinzione può portarci avanti nella comprensione di quello che può accadere oggi nell’anima di un adolescente.
“Esecutore” significa – ma questo potrà però dircelo solo lui, Riccardo, se in carcere avrà il coraggio di fare il lavoro su di sé che gli auguro – significa che l’impulso omicida probabilmente ha avuto origine dall’incapacità di tollerare ancora la pressione spaventosa esercitata giorno e notte dall’imperativo globale dell’affermazione individuale. Dall’angoscia di non essere all’altezza delle aspettative di successo che il mondo, prima ancora che la sua famiglia, riponeva nei suoi riguardi.
Che la furia omicida si sia rivolta proprio contro le persone che, immagino, abbiano più cercato di amarlo credo non sia stato né premeditato né casuale: forse, in uno stato di trance che ben conosco per averlo vissuto quando, ventiduenne, ho tentato di suicidarmi, Riccardo ha sentito che solo uccidendo le persone che l’avevano messo al mondo e l’altro frutto del loro generare, poteva chiudere la partita col mondo stesso, dimostrandogli con il proprio valore anche il proprio disprezzo.
Più ho l’opportunità, e il privilegio, di dialogare con adolescenti, più mi convinco che molti omicidi e anche suicidi compiuti a quella età siano un estremo tentativo di affermarsi agli occhi del mondo anche a costo di perdere la propria libertà o la propria vita.
Ciò detto una cosa mi pare evidente: l’individuo occidentale, vale a dire globale, sta esplodendo, come dimostrano guerre e conflitti, poteri e patrimoni frutto di un’insaziabile bisogno di affermarsi, di esistere a scapito degli altri o anche contro di loro.
La felicità è fare di se stessi fiamma
“Mors tua vita mea”: è in questo il contesto che possono avvenire tragedie come quella di Paderno Dugnano, esiti estremi di vite condizionate, espropriate, esecutrici di pulsioni che le guidano passo dopo passo.
Sonnambulismo psichico di chi non ha compreso – o non è stato aiutato a comprendere – che l’io è il mezzo, non lo scopo della vita, e che affidarsi ai suoi impulsi è destinarsi a un’esistenza rabbiosa, insoddisfatta, e proprio perciò predatrice, violenta e potenzialmente omicida.
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