La sede della Corte penale internazionale all'Aia (foto Rick Bajornas/Nazioni Unite)
La sede della Corte penale internazionale all'Aia (foto Rick Bajornas/Nazioni Unite)

Corte penale internazionale: cos'è, a cosa serve e come funziona

Oggi al centro di una campagna di delegittimazione, il tribunale dell'Aia ha perseguito gli autori dei peggiori crimini internazionali. "Al di là della sanzione, ha una funzione deterrente e facilita la riconciliazione", sottolinea il giudice Aitala. Spieghiamo cos'è, chi ne fa parte e come funziona

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

10 febbraio 2025

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La Corte penale internazionale ha aperto un procedimento contro l'Italia per "mancato rispetto di una richiesta di cooperazione" in relazione alla liberazione dell'ufficiale libico Najeem Osema Habish detto Almasri. Lo ha confermato lunedì il portavoce del tribunale, aggiungendo che il nostro Paese "avrà l'opportunità di presentare osservazioni". La questione potrebbe finire sul tavolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre il dibattito prende toni sempre più accesi, con i vicepremier Salvini e Tajani che chiedono che siano i giudici a finire sotto indagine, ricostruiamo cos’è, a cosa serve e come funziona la Corte.

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Cos’è la Corte penale internazionale

La Corte ha trattato finora 32 casi, emettendo 60 mandati d'arresto, 11 condanne e portando in carcere 21 persone

La Corte penale internazionale (Cpi) è un tribunale permanente che indaga e giudica le persone fisiche (quindi non gli Stati) accusate dei più gravi crimini internazionali. Ironia della sorte, è nata proprio in Italia: nel 1998, Roma ha ospitato la conferenza delle Nazioni Unite al termine della quale le delegazioni degli Stati presenti hanno firmato il documento che ha istituito la Corte e ne ha definito il funzionamento, lo Statuto di Roma. La corte ha sede all'Aia, nei Paesi Bassi, e finora ha trattato 32 casi, emettendo 60 mandati d’arresto e 11 condanne. Grazie alla cooperazione degli Stati aderenti, 21 persone sono finite in carcere. Non è da confondere con la Corte internazionale di giustizia, che pure ha sede all’Aia, ma ha competenza sulle controversie tra Stati, per esempio nel caso di confini disputati, e non può emettere condanne detentive. 

Quali crimini persegue la Corte penale internazionale

Secondo lo Statuto di Roma, la Corte ha competenza solo su quattro crimini, ritenuti i più gravi per la comunità internazionale:

  • il crimine di genocidio, cioè l’insieme di “atti commessi nell'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”;
  • i crimini contro l’umanità, come tortura, stupro, riduzione in schiavitù, deportazione, apartheid, quando “commessi nell'ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili”;
  • i crimini di guerra, come tortura, distruzione ingiustificata, cattura di ostaggi, attacchi deliberati contro popolazioni civili, edifici, personale e mezzi sanitari e umanitari;
  • il crimine di aggressione, aggiunto nel dicembre del 2017 per volere degli Stati membri e definito come “la pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione” di un attacco armato “contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”.

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Corte penale internazionale: chi la riconosce e chi no

Ad oggi sono 125, sui 193 riconosciuti dalle Nazioni unite, gli Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma e che quindi riconoscono la giurisdizione della Corte penale internazionale. Tra questi, quasi tutti i Paesi europei e sudamericani, 33 africani e 19 asiatici. All’appello mancano gli Stati Uniti e la Russia, che hanno ritirato la firma, oltre a Cina, India, Iran, Turchia, Bielorussia, Israele, Arabia Saudita e altri che non l’hanno nemmeno firmato. L’ultima ratifica risale allo scorso ottobre ed è quella dell’Ucraina, che però ha dichiarato di non accettare la giurisdizione della Corte rispetto ai crimini di guerra per un periodo di sette anni. 

In verde gli Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma, in giallo quelli che l'hanno firmato ma non ratificato, in arancio quelli che si sono ritirati, in rosso quelli che non l'hanno mai firmato
In verde gli Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma, in giallo quelli che l'hanno firmato ma non ratificato, in arancio quelli che si sono ritirati, in rosso quelli che non l'hanno mai firmato

Come funziona la Corte penale internazionale

La Corte può avviare indagini autonomamente su crimini commessi dal 2002 sul territorio dei 125 Stati che ne hanno accettato la giurisdizione o da parte di un cittadino di quegli Stati. È per questo che, per esempio, ha potuto emettere mandati d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant nonostante Israele non abbia ratificato lo Statuto, perché i crimini di cui sono accusati sono stati commessi nei territori della Palestina, che invece riconosce la Corte. Se invece è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite incaricare la Corte di svolgere indagini, queste possono riguardare crimini commessi in qualsiasi Stato, che abbia ratificato o meno lo Statuto. È con questo meccanismo che è stato aperto il fascicolo sulla Libia (che non aderisce alla Corte) nell’ambito del quale è stato emesso il mandato di Almasri.

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Il lavoro della Corte prevede sei fasi:

  1. esame preliminare: ricevuta una richiesta di indagine, il procuratore verifica inizialmente se ci sono sufficienti indizi e se i presunti crimini ricadono nella giurisdizione della Corte;
  2. indagini: se queste condizioni sono rispettate, il procuratore inizia a raccogliere le prove. In questa fase può richiedere un mandato d’arresto o una convocazione nei confronti degli indagati;
  3. fase pre-processuale: sentiti il procuratore, la difesa e i rappresentanti delle vittime, la camera preliminare, composta da tre giudici, decide entro 60 giorni se ci sono elementi sufficienti per andare a processo;
  4. processo: un collegio composto da altri tre giudici esamina le prove ed emette una sentenza, che può prevedere pene fino all’ergastolo oltre a un risarcimento per le vittime;
  5. appello: sia il procuratore che la difesa possono fare ricorso contro la decisione della camera processuale. In questo caso, a decidere sono altri cinque giudici, che possono confermare, annullare o riformulare la sentenza;
  6. esecuzione della sentenza: i condannati, se arrestati grazie alla collaborazione delle autorità nazionali, vengono detenuti nelle carceri di uno degli Stati aderenti.

Cosa succede quando uno Stato non collabora

La Corte penale internazionale non ha una forza di polizia propria, quindi deve affidarsi alla collaborazione dei singoli Paesi. Lo prevede l’articolo 86 dello Statuto di Roma, che obbliga gli Stati aderenti a “cooperare pienamente nelle inchieste ed azioni giudiziarie che la Corte svolge”. In caso contrario, “la Corte può investire del caso l’Assemblea degli Stati parti, o il Consiglio di Sicurezza se è stata adita da quest’ultimo”. Questo meccanismo è stato attivato finora 18 volte per il mancato arresto del dittatore sudanese Omar Al Bashir e di altri esponenti del suo regime, del keniota Jomo Kenyatta, del libico Muammar Gheddafi e, da ultimo, del presidente russo Vladimir Putin, che lo scorso settembre ha potuto visitare indisturbato la Mongolia nonostante il mandato di cattura. 

I processi contro i crimini di guerra hanno degli effetti collaterali (positivi)

Lo stesso potrebbe succedere per l’Italia se la Corte dovesse accertare la mancata cooperazione e portare la questione all’attenzione del Consiglio di sicurezza Onu. Difficile, però, che questo porti a conseguenze concrete: il Consiglio di sicurezza ha più volte adottato risoluzioni per richiamare gli Stati al dovere di cooperare con la Corte, ma non ha mai preso provvedimenti nei confronti di chi non l’ha fatto. In ogni caso, tra i membri permanenti con potere di veto ci sono gli Stati Uniti di Donald Trump, che oltre ad avere un ottimo rapporto con il governo di Giorgia Meloni è in guerra aperta proprio con la Corte penale internazionale. 

A cosa serve la Corte penale, spiegato da un giudice

"Raramente si arriva a una condanna, ma la sanzione è un aspetto secondario. La giustizia penale internazionale serve a limitare il ricorso alla forza armata e predisporre alla riconciliazione"Rosario Salvatore Aitala - vicepresidente Cpi

Il giudice Rosario Salvatore Aitala ha spiegato il senso del lavoro della Corte, di cui è vicepresidente, durante la Conferenza internazionale sull’uso sociale dei beni confiscati organizzata da Libera e tenutasi in Vaticano lo scorso novembre: “Innanzitutto, i crimini che persegue interessano beni macroscopici: la pace, la sicurezza internazionale, il benessere delle persone, i diritti fondamentali degli individui. Secondo, sono sempre atti politici, commessi per il potere, per controllare risorse, territori, corpi, anime. Terzo, sono crimini in cui c’è sempre la cooperazione di un numero molto ampio di persone che si muovono all’interno di strutture politiche o militari nelle quali le responsabilità sono parcellizzate, con la particolarità che più ci si allontana dalla commissione materiale del fatto, più cresce il livello della responsabilità giuridica, morale ed etica. Quarto, sono crimini di massa, con migliaia di vittime. Questo significa che la nostra è una giustizia necessariamente parziale, perché i pochi fotogrammi che arrivano alla nostra attenzione sono una percentuale infinitesimale rispetto a pellicole immense, eterne, inimmaginabili. Quinto, le condanne sono piuttosto rare, perché la Corte procede solo alla presenza degli imputati, mai in contumacia”. 

Questo però non significa che la Cpi sia inutile perché, ha ricordato Aitala, “la sanzione è solo uno degli aspetti della giustizia penale internazionale”. Ci sono altre due funzioni: “In termini internazionali, serve ad assicurare il rispetto del diritto internazionale o quantomeno chiamare al rispetto i governi, con una funzione di deterrenza. C’è poi una funzione sociale: la ricostruzione delle responsabilità predispone alla riconciliazione e spesso permette di perdonare, senza contare l’importanza del risarcimento alle vittime”. “Sono gli Stati a fare la guerra e sono loro che devono fare la pace, i tribunali seguono la propria via – ha concluso Aitala –.  In alcuni casi il nostro lavoro ha aiutato la pace, in altri casi forse no. Ma questo va al di là delle nostre possibilità”.

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