La professoressa Cattaneo mostra alcuni oggetti ritrovati dopo il naufragio del 18 aprile 2015. Foto di P. Valenti
La professoressa Cattaneo mostra alcuni oggetti ritrovati dopo il naufragio del 18 aprile 2015. Foto di P. Valenti

Migranti: "A 10 anni dal naufragio, il nostro lavoro per dare un nome alle vittime del Mediterraneo"

Il 18 aprile 2015, più di mille persone hanno perso la vita nel Canale di Sicilia nella più grande strage di migranti. Al laboratorio Labanof di Milano, la squadra della professoressa Cristina Cattaneo continua a lavorare per identificare i corpi: "Dovrebbe accadere di default, per tutti i naufragi". L'abbiamo intervistata

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

17 aprile 2025

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Delle fotografie di cui rimangono solo macchie di colore illeggibili, quasi acquerelli astratti. Un passaporto corroso dal sale. Una misbaha, la collana usata dai musulmani per contare le preghiere, con grani d’avorio. Un paio di guanti da bambini con lo stemma del Real Madrid cucito sul dorso. La professoressa Cristina Cattaneo li posa su un tavolo coperto da telo nero dopo averli estratti con cura dalle buste di plastica con chiusura a zip. Su ognuna, scritto a pennarello, c’è un numero seguito da una parola: “stiva”, “poppa”, “gav”, come gavone. Indicano dove sono stati trovati quegli oggetti sul barcone che, il 18 aprile 2015, è affondato a 85 miglia dalla costa libica nel più grande naufragio di migranti mai registrato nel Mediterraneo.

Fu portato a galla per volere dell’allora governo Renzi e posato sull’ex pontile Nato tra Augusta e Melilli, in provincia di Siracusa. Lì, lo staff del Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’università di Milano ha iniziato a lavorare per dare un nome ai più di mille corpi recuperati, come già stava facendo per i naufragi del 3 e 11 ottobre al largo di Lampedusa: “L’Italia ha fatto una cosa meravigliosa, che nessun altro Paese ha mai fatto”, racconta a lavialibera la professoressa Cattaneo, che dirige il laboratorio. A dieci anni da quella tragedia, nella sede di Città Studi si analizzano ancora reperti, fotografie e campioni di dna per dare risposte alle famiglie che, dall’altra parte del Mediterraneo, cercano ancora i propri cari. Con l’amara consapevolezza che le vittime delle tante altre tragedie del mare non ricevono la stessa cura.

Naufragio del 18 aprile 2015: doveva diventare un monumento, il barcone è abbandonato

Professoressa, sono passati dieci anni dal naufragio del 18 aprile 2015. A che punto è il lavoro di identificazione?

Finora siamo riusciti a dare un nome a 33 persone, ma contiamo di accelerare nei prossimi mesi perché abbiamo completato la tipizzazione genetica di tutte le mille e stiamo iniziando a ricevere i dna dei presunti familiari. La cosa triste è che tutto questo lavoro è pro bono. Il governo non ha stanziato nessun fondo. Noi copriamo parte delle spese con i fondi alla ricerca, le altre università che hanno collaborato con noi hanno dovuto raschiare il fondo del barile. Questo è un insulto alla dignità di queste persone, perché questo lavoro dovrebbe essere fatto di default, e per tutti i naufragi.

Cosa ricorda di quel giorno?

Quando ho appreso la notizia, ho pensato: “È l’ennesimo grande naufragio del Mediterraneo”. Ci stavamo già occupando dell’identificazione delle vittime dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, ma mai avremmo pensato di iniziare un lavoro simile anche per questo, finché il prefetto Piscitelli (allora Commissario straordinario per le persone scomparse, ndr) ci ha detto dell’intenzione del governo di portare a galla il relitto e ci ha chiesto di collaborare. Qualche mese dopo, la Marina ha avviato le operazioni di recupero e lì è iniziato il nostro lavoro. 

Ce lo descrive?

All’inizio sono entrati in funzione i robot per recuperare i resti che si trovavano sul fondo, fuori dal barcone. Ne sono stati estratti circa 200, tutti sottoposti ad autopsia. Io e le mie tre antropologhe siamo partite subito. Come prima cosa ci siamo interrogate sul metodo: esistono protocolli tecnici per i disastri di massa, ma questo era diverso, non era né uno tsunami, né un disastro aereo. Qui c’erano sacchi dove magari c’erano due crani, oppure un corpo già in decomposizione a cui mancava una gamba. Così abbiamo deciso di considerare corpo solo ciò che era tutto attaccato, mentre tutto il resto sarebbe stato trattato a parte. Quando il barcone è stato recuperato, abbiamo dovuto istruire i vigili del fuoco su cosa avrebbero trovato e come lavorare. Io stessa sono entrata due volte con il respiratore, nonostante non avessi il brevetto, per spiegare come maneggiare i resti. 

Graphic story: il difficile compito di dare un nome ai migranti morti in mare

Un lavoro di squadra.

Sì, all’inizio ci sono venuti in aiuto i colleghi delle università di Catania, Messina e Palermo. Man mano che i resti venivano estratti e il lavoro si faceva più intenso e lungo, poi, abbiamo coinvolto altre dieci università che inviavano specializzandi a rotazione. Arrivavano il lunedì, noi spiegavamo il funzionamento e si iniziava. Prima si lavavano i vestiti per rimuovere la nafta e leggere le scritte potenzialmente utili all’identificazione, poi si passava alle autopsie. Avevamo due tende, ognuna con due tavoli, e si lavorava più o meno in quattro attorno a un tavolo. Bisognava repertoriare tutto: i vestiti, gli oggetti, ciò che era cucito addosso, e eseguire i prelievi per il dna. Fuori dalle tende, poi, c’era un’area riservata alla polizia scientifica, con il camion frigo per i resti, che dopo i prelievi venivano incassati e portati via dalle pompe funebri verso i vari cimiteri. Nonostante la tragedia conservo ricordi bellissimi. Tutto era perfettamente organizzato, si respirava un fortissimo senso di solidarietà, anche tra agenzie che non si conoscevano e che forse normalmente non andavano neanche molto d’accordo, ma che lì abbracciavano questa missione. L’Italia ha fatto una cosa meravigliosa, che nessun altro Paese ha mai fatto. Quel posto poi (l’ex pontile Nato di Melilli, vicino ad Augusta, in provincia di Siracusa, ndr) era davvero particolare, pieno di cani randagi: due, Orso e Rocky, li ho presi e sono ancora con me.

"Sono oggetti che scuotono la coscienza anche quando li trovi sul luogo di un incidente stradale, ma qui urtano doppiamente, perché c’è la beffa ulteriore che a nessuno interessa identificare il corpo e consegnarlo alla madre che lo sta cercando"

Poi il lavoro è proseguito a Milano, dove avete portato tutti i reperti. Quali oggetti avete trovato?

Ricordo tanti sacchetti cuciti sui vestiti: contenevano manciate di terra del paese d’origine. Poi le pagelle, i diari, un sacco di lettere, rosari, tante tessere da donatori di sangue. Stiamo ancora lavorando per recuperarli e conservarli come beni culturali. Ricordo il silenzio che è calato nell’hangar quando abbiamo trovato la pagella. Sono quegli oggetti che scuotono la coscienza anche quando li trovi, per esempio, sul luogo di un incidente stradale, ma qui urtano doppiamente, perché c’è la beffa ulteriore che a nessuno interessa identificare il corpo e consegnarlo alla madre che lo sta cercando.

Cosa raccontano questi oggetti di chi stava su quel barcone?

Sono sempre le stesse storie: ragazzi, studenti o giovani lavoratori, che magari hanno fatto il liceo, si sono diplomati e poi per un motivo o l’altro hanno deciso di partire. Ricordo la lettera trovata nella tasca di un ragazzo eritreo, 16-17 anni dalle ossa: era uscito da un campo di addestramento militare e fuggito dall’Eritrea. La mamma e la sorella maggiore scrivevano “Va bene, vai, non ti preoccupare, troverai lavoro in un altro paese. Però mi raccomando, non andare al Nord, non attraversare il Mediterraneo, perché sentiamo storie brutte. E la sorellina aggiungeva: “Sai che sono stata promossa?”. Se non fosse per il servizio militare obbligatorio, sarebbero simili alle storie dei nostri ragazzi, che vanno via da casa per studiare fuori o cercare un lavoro. Un altro ragazzo portava con sé una lettera d’amore della fidanzata che stava in Inghilterra e scriveva: “Ti aspetto, sappi che comunque vadano le cose niente potrà mai turbare il nostro amore”. 

Fotoinchiesta: lapidi senza nome

"C'è un’evidente discriminazione: se fosse Elon Musk a inabissarsi spenderemmo un sacco di soldi per cercarlo. Spesso ci si dimentica che quel certificato di morte è fondamentale per i vivi, per l'orfano, per la vedova"

Quelle che sono state messe in campo per i naufragi del 18 aprile 2015 e dell’ottobre 2013 sono iniziative eccezionali. Per il resto delle tragedie che continuano ad accadere, non ci sono procedure di recupero e identificazione standard.

C'è un’evidente discriminazione: se fosse Elon Musk a inabissarsi spenderemmo un sacco di soldi a cercarlo, invece qui c’è l’idea che “non sono dei nostri, quindi non andiamo a cercarli”. Ma c’è anche ignoranza: molta gente dice: “Certo, poverini, però abbiamo già tanti problemi con l’accoglienza dei vivi, non spendiamo soldi sui morti”. Ma quel certificato di morte che puoi dare solo identificando il corpo è fondamentale per i vivi, per l’orfano, per la vedova.

Vede passi avanti su questo fronte?

Qualcosa sta cambiando, ma troppo lentamente. In Sicilia sembra che la raccolta dati post mortem sia più frequente, poi resta da capire se finiscono nella banca dati nazionale. Il problema è che manca tutta la parte di ricerca dei familiari, senza la quale non è possibile completare le identificazioni (su questo il governo si è limitato a sottoscrivere un accordo con la Croce rossa, che collabora a titolo gratuito e nei limiti delle proprie capacità, ndr). Quello dei migranti morti è sempre stato un argomento impopolare, sia a destra che a sinistra. E forse ora, rispetto a dieci anni fa, l’attenzione è ancora minore. 

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