3 ottobre 2013, i cadaveri morti in uno dei più letali naufragi di un'imbarcazione di migranti nel Mediterraneo (Ansa)
3 ottobre 2013, i cadaveri morti in uno dei più letali naufragi di un'imbarcazione di migranti nel Mediterraneo (Ansa)

Dare un nome a chi muore in mare

Identificare le salme dei migranti morti affogati nel Mediterraneo non è facile. Non esistono procedure standard: il prelievo del Dna e il rintracciamento dei parenti dipendono dalla buona volontà delle procure e da iniziative di volontariato. Circa 1700 cadaveri sono ancora senza un nome, discriminati anche da morti

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

1 ottobre 2023

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“Etnia africana. Deceduto causa fenomeno migratorio”. Queste sei parole si ripetono identiche decine, centinaia di volte, nella sezione “Sicilia” del registro dei cadaveri non identificati pubblicato nel 2014 dal Commissario straordinario del governo per le persone scomparse. Alla voce “reperti rinvenuti”, oggetti che raccontano il passato e le speranze future di chi abitava quei corpi: “collana di metallo con ciondolo a forma di due cuori“, “portafogli in tessuto contenente diverse foto”, “libro di preghiere”, “scheda SIM”, “banconota da 100 dollari americani”. Età: 40, 23, 16, 5 anni.

A ricorrere spesso tra le pagine del registro è anche una data: 3 ottobre 2013. Quel giorno, un peschereccio salpato dal porto libico di Misurata affondò a poche miglia dalle coste di Lampedusa in uno dei più gravi naufragi del Mediterraneo. Furono 155 i migranti salvati, una ventina i dispersi e 366 i cadaveri recuperati. Di questi, 221 furono identificati nei mesi e negli anni successivi. I restanti 145, invece, giacciono senza nome nei cimiteri di piccoli comuni del Sud Italia. Ma amici e parenti dall’altra parte del Mediterraneo non lo sanno, e forse cercano ancora notizie del proprio caro.

La stessa sorte tocca a migliaia di altre vittime. Dopo dieci anni e innumerevoli altri naufragi, infatti, la gestione e l’identificazione delle salme recuperate nel Mediterraneo è ancora vittima di un approccio “caso per caso” ed emergenziale: “Siamo ancora fermi a dieci anni fa”, spiega a lavialibera Tareke Bhrane, presidente del Comitato 3 Ottobre, organizzazione nata all’indomani del naufragio del 2013 per coltivare la memoria dei morti in mare e migliorare le pratiche di riconoscimento. “Non c’è una norma che disciplini la raccolta dei dati, non c’è un database unico, non ci sono indicazioni chiare e uniformi che dicano alle questure come comportarsi, contrariamente a quanto avviene, per esempio, nel caso di un corpo trovato per strada”.

I corpi di chi ha cercato di attraversare il Mediterraneo sono sepolti nei piccoli cimiteri del sud Italia: la fotoinchiesta Morti senza nome

La procedura per i dispersi “domestici”

Nel caso di ritrovamento di un cadavere non identificato in circostanze non legate all’immigrazione, i medici legali incaricati dall’autorità giudiziaria esaminano la salma e compilano una scheda post mortem con informazioni dettagliate sui tratti somatici, gli indumenti ed eventuali segni particolari. Questa viene poi caricata sul Registro nazionale dei cadaveri non identificati, consultabile pubblicamente. Allo stesso tempo, viene prelevato un campione del Dna, che confluisce in una banca dati distinta.

Una procedura parallela scatta invece a partire da una denuncia di scomparsa: in quel caso, le forze di polizia compilano, con l’aiuto dei familiari, una scheda ante mortem, con dati utili al ritrovamento. Questa confluisce poi nell’elenco delle persone scomparse del ministero dell’Interno, anche questo consultabile da tutti. Il sistema informatico Ri.Sc. (ricerca scomparsi), attivo dal 2010, provvede poi a individuare eventuali corrispondenze tra cadaveri non identificati e persone scomparse. Il tutto, sotto la supervisione e il coordinamento del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, istituito nel 2007.

Cosa succede ai corpi dei migranti

“L’obiettivo, anzi l’imperativo morale, era quello di assicurare la collaborazione tra le procure e gli altri attori coinvolti, cosa che prima non era affatto scontata”Vittorio Piscitelli - Commissario straordinario del governo per le persone scomparse

Ma per i migranti non è così. Nel caso dei grandi naufragi, il Commissario si avvale della collaborazione – volontaria e gratuita – del Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanofdell'Università degli Studi di Milano, con cui ha siglato due protocolli d’intesa: il primo dopo le tragedie del 3 e dell’11 ottobre 2013 a Lampedusa, il secondo a seguito del naufragio del 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia, in cui si stima siano morti più di mille migranti. “I protocolli nacquero sull’onda emotiva di quelle tragedie per rompere una situazione di fatto in cui non si faceva granché per il riconoscimento”, spiega il prefetto Vittorio Piscitelli, allora commissario alle persone scomparse, ora in pensione. “L’obiettivo, anzi l’imperativo morale, era quello di assicurare la collaborazione tra le procure e gli altri attori coinvolti, cosa che prima non era affatto scontata”.

I protocolli affidavano al laboratorio Labanof l’incarico di analizzare e archiviare i materiali biologici e dati post mortem relativi ai corpi dei migranti, inclusi i campioni di Dna, e quelli ante mortem raccolti grazie ai familiari, per poi procedere al confronto. Intervistato da lavialibera, il viceprefetto Andrea Cantadori, attuale vicario del Commissario alle persone scomparse, ha fornito dati aggiornati sui risultati di questa collaborazione: delle 915 salme recuperate a seguito dei tre naufragi per cui è stato attivato il protocollo, 181 sono state identificate tramite riscontro fotografico da parte dei familiari e “circa 80” tramite le analisi genetiche condotte da Labanof.

Morti in mare, attesi a casa

Nessuna regola sul Dna

“Se non vengono individuati possibili scafisti, non parte la notizia di reato e le salme vengono quindi affidate alla polizia mortuaria e alle autorità comunali per la tumulazione"Serena Romano - Avvocata

Per tutti gli altri naufragi regna la discrezionalità. “Quando vengono rinvenuti corpi in mare o sulle coste, la procura manda un medico legale per accertare le cause del decesso, che nella maggior parte dei casi è asfissia per annegamento”, spiega a lavialibera l’avvocata Serena Romano, che con l’associazione Mem.Med fornisce supporto legale ai familiari delle vittime e dei dispersi del Mediterraneo. “Se non vengono individuati possibili scafisti, non parte la notizia di reato e le salme vengono quindi affidate alla polizia mortuaria e alle autorità comunali per la tumulazione. Altrimenti, i corpi rimangono a disposizione della procura per la durata delle indagini. In ogni caso, il prelievo dei campioni del Dna non è sistematico, e spesso avviene solo se le autorità sono sollecitate attraverso un’istanza presentata da avvocati come me”.

È lo stesso Commissario ad ammettere, nella relazione annuale del 2022, le carenze del sistema di raccolta dei dati genetici: “Si avverte sempre più l’esigenza di disporre di protocolli e di standard d’azione uniformi su tutto il territorio nazionale, finalizzati ad implementare correttamente la Banca dati del Dna e aumentare le potenzialità connesse ai processi identificativi”.

I migranti esclusi dai registri

Anche le schede post mortem dei migranti vittime delle traversate non subiscono lo stesso trattamento di quelle dei morti “domestici”. “Ai miei tempi – spiega il commissario Piscitelli – i dati dei cadaveri dei migranti venivano inseriti nel registro nazionale e le fotografie venivano caricate sul sito del commissario perché i familiari potessero consultarle facilmente”. Oggi, però, non è più così. La raccolta fotografica non è più accessibile e dal 2016 è stata fatta la scelta di escludere le schede relative ai migranti vittime dei naufragi dal registro nazionale dei cadaveri non identificati. Il viceprefetto Cantadori assicura che sono inserite in un registro distinto, che però non è consultabile. Impossibile quindi sapere quanti siano, ad oggi, i corpi che ancora aspettano un nome. L’ultimo dato disponibile risale al 30 giugno 2020, come riportato nella relazione del prefetto di quell’anno: allora, erano 1676 i “cadaveri non identificati connessi al fenomeno migratorio”. A questi si aggiungono almeno 30mila resti ossei, che “non sappiamo a quante persone corrispondano”, dice Cantadori.

Rintracciare i familiari

"Quando abbiamo notizie di naufragi e possiamo risalire al luogo d’origine, contattiamo i volontari attivi su quel territorio perché raggiungano le famiglie. In alcuni casi sono invece le famiglie a rivolgersi ai nostri comitati territoriali"Rossella Di liberto - Restoring Family Links - Italia

C’è poi lo scoglio del rintracciamento dei familiari nei paesi d’origine. A questo fine, il Commissario alle persone scomparse ha firmato tre protocolli d’intesa: con la Commissione internazionale per le persone scomparse (International commission on missing persons, Icmp), con il Ministero degli Affari esteri e con la Croce rossa italiana e internazionale. Quest’ultimo, siglato nel 2017, si avvale delle risorse e delle competenze che il Comitato internazionale ha sviluppato nel corso degli anni nell’ambito del servizio Restoring Family Links (Rfl), attivo su scala internazionale per ricongiungere le famiglie separate a causa di guerre, catastrofi naturali e migrazioni.

“La nostra forza è avere una rete solida diffusa in modo capillare in tutto il mondo – spiega Rossella Di Liberto, responsabile del servizio Rfl per l’Italia –. Quando abbiamo notizie di naufragi e possiamo risalire al luogo d’origine, contattiamo i volontari attivi su quel territorio perché raggiungano le famiglie. In alcuni casi sono invece le famiglie a rivolgersi ai nostri comitati territoriali se hanno perso i contatti con i propri cari partiti per l’Europa. Quello che facciamo è recuperare i dati ante mortem del disperso insieme a campioni biologici dei familiari e spedirli al Commissario per un confronto”.

Questo sistema, attivato solo per i tre “grandi naufragi” citati prima, ha permesso ad oggi di identificare 18 corpi, a fronte di centinaia di casi aperti. Nessuno però è stato chiuso definitivamente, precisa Di Liberto, perché i familiari sono ancora in attesa del certificato di morte o delle fotografie del luogo di sepoltura. “Spesso ci vogliono anni”, ammette.

Vittime due volte per un pezzo di carta

"Una donna etiope, madre di tre figli, che aveva ottenuto un visto umanitario per l’Australia, ma manca il certificato di morte del marito, scomparso nel naufragio del 3 ottobre. Oggi la signora e i figli sono ancora bloccati in Etiopia perché manca un pezzo di cartaTareke Bhrane - Comitato 3 Ottobre

“Per le famiglie è una sofferenza infinita, ma anche un danno”, dice Bhrane, del Comitato 3 Ottobre. “Faccio un esempio: siamo stati contattati da una donna etiope, madre di tre figli, che aveva ottenuto un visto umanitario per l’Australia. Per ammetterli all’ingresso, però, l’ambasciata richiedeva un documento che attestasse il consenso del padre dei tre minori o, in caso di decesso, il suo certificato di morte. Ma il padre è una delle vittime del naufragio del 3 ottobre, per cui il certificato non c’era. Oggi la signora e i suoi figli sono ancora bloccati nei campi dell’Etiopia, in mezzo alle violenze, perché manca un pezzo di carta. Sono vittime due volte”.

Anche in questo caso, è lo stesso Commissario ad ammettere l’insufficienza degli strumenti esistenti: “I protocolli sottoscritti – si legge nella relazione 2021 – non hanno permesso di raggiungere i risultati attesi per le oggettive difficoltà connesse ai contatti e alle informazioni con i presunti parenti delle vittime”.

Tanti attori, poche risorse, nessuna norma

“Il problema sarebbe facilmente risolvibile con l’istituzione di un’infrastruttura unica, un laboratorio forense nazionale, come avviene negli altri paesi”Cristina Cattaneo - Direttrice del Labanof

Al di là dell’efficacia dei singoli protocolli, emerge chiaramente l’assenza di procedure standard, condivise e applicate omogeneamente per il riconoscimento dei corpi delle vittime dei naufragi. Lo diceva esplicitamente, ancora una volta, lo stesso Commissario nella relazione del 2019, che suona come una richiesta disperata: “In questi 12 anni, ogni Commissario pro tempore, malgrado l’esiguità di risorse umane e strumentali, l’assenza di un budget, la precarietà dell’incarico, soggetto al rinnovo anno per anno, ha lavorato concretamente per colmare i numerosi vuoti in questa delicata materia. La competenza del Commissario non è sancita da una norma specifica. Anche la problematica dei corpi senza nome è sotto controllo in alcune regioni dove sono stati stipulati dei protocolli d’intesa mentre si presenta del tutto non regolamentata in altre. Appare alquanto singolare e defatigante che si debba arrivare alla stipula di tanti protocolli quante sono le Regioni!”.

“Il problema sarebbe facilmente risolvibile con l’istituzione di un’infrastruttura unica, un laboratorio forense nazionale, come avviene negli altri paesi”, spiega a lavialibera la dottoressa Cristina Cattaneo, direttrice del laboratorio Labanof. “Serve poi una legge, non solo in Italia ma in tutti i paesi europei, che obblighi i governi a raccogliere sempre i dati utili all’identificazione e inserirli nelle banche dati nazionali. Il problema è che non c’è la volontà politica, e anche l’Europa di fronte a questi morti si volta dall’altra parte”.

“Siamo di fronte a una tragedia diluita nello spazio e nel tempo – continua la dottoressa –. Questa gente non soltanto muore in condizioni terribili, che è già un primo schiaffo alla vita, alla dignità e al rispetto. Ma anche da morti subiscono un altro oltraggio: quello di vedere che a nessuno importa restituire a quei corpi un nome, con una discrepanza enorme rispetto a come trattiamo qualunque vittima di una frana o un nubifragio. Con che coraggio portiamo avanti una discriminazione così palese?”.


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