Migranti, morti senza nome

Sono 3mila i migranti annegati nel Mediterraneo centrale, ripescati e accolti nei cimiteri di piccoli comuni del Sud Italia. La maggior parte riposa sotto lapidi anonime, identificati solo da un numero. Forse c'è chi li cerca ancora

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

12 settembre 2023

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Squilla il telefono dei sindaci del Sud, della Sicilia e dell’agrigentino in particolare. Dall’altra parte c’è la prefettura o il Comune di Lampedusa alla ricerca di qualche loculo disponibile e in fretta. Bisogna seppellire i corpi dei migranti morti in mare e recuperati dalle onde, la prefettura li invierà presto al primo paese che se ne farà carico.

Dare un nome a chi muore in mare

Santo Stefano Quisquina, piccolo centro arroccato nell’entroterra agrigentino, con vista mare nei giorni di chiaro, a detta del primo cittadino di Lampedusa Filippo Mannino è uno dei più pronti ad accogliere le salme. Il sindaco Francesco Cacciatore si schermisce: "Facciamo quel che possiamo per continuare a dare una 'casa' a chiunque ne abbia bisogno, anche da morto, con la speranza di non dover più assistere a tragedie come queste". Li chiamano border deaths, i morti alla frontiera, e nessuno sa con esattezza quanti siano.

"La cittadinanza partecipa ai funerali, ogni tanto qualcuno porta un fiore"Francesco Cacciatore - Sindaco di Santo Stefano Quisquina

"Circa" è la parola chiave per parlarne: la studiosa Silvia Omenetto ha contato circa 27 cimiteri nel Sud Italia in cui sono custoditi i circa 3mila corpi (secondo fonti di stampa) di persone partite dalle coste africane e finite sepolte nel nostro paese assieme alla loro storia. Sono quelle di cui almeno si è recuperata la salma: delle altre migliaia morte nel Mediterraneo dal 2014 – almeno 28mila, secondo le stime del Missing migrants project dell’organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) – non si sa invece più nulla. Senza poi contare le centinaia di resti umani trovati sulle coste libiche, censiti dalla stessa fonte, ma che non sono collegati a nessun naufragio conosciuto.

A Santo Stefano i corpi sono raccolti nell’area del cimitero destinata alle emergenze, come terremoti e pandemie, segnalati da una piccola targa. "La cittadinanza partecipa ai funerali, ogni tanto qualcuno porta un fiore. Un privato cittadino ha donato la lapide, che si è aggiunta a quella realizzata dal Comune", spiega Cacciatore. L’ultimo corpo è arrivato il 5 giugno di quest’anno, etichettato come cadavere di identità ignota. Solo uno di quelli presenti nel piccolo sepolcreto di montagna è stato identificato e rimandato a casa. Era una ragazza.

Morti in mare, attesi a casa

Il corpo ritrovato

Si chiamava Nebiat Abate ed era nata a Gambien, in Eritrea, il 5 marzo 2002. Quando è annegata aveva solo 18 anni. Era il 23 novembre 2019 e la barca su cui stava viaggiando si è rovesciata di fronte all’Isola dei conigli, a Lampedusa. Il suo corpo è stato recuperato dai sommozzatori della Guardia costiera insieme a quello di altre sei donne. Questo il tenore dei documenti di accompagnamento delle salme: "Cadavere di sesso femminile, età stimata tra i 18 e i 25 anni, peso stimato tra i 40 e i 50 kg, indossa indumenti bagnati con presenza di alghe marine. Presenza di schiuma di colore bianco misto a sangue fuoriuscente dalle narici e dalla bocca. Decesso per verosimile annegamento in mare".

Nebiat è stata riconosciuta dal cognato grazie a una foto. Così ha smesso di essere la "salma n.3" e ha recuperato almeno il nome. Il sindaco ha firmato l’autorizzazione per il trasporto del corpo in Eritrea, nella famiglia d’origine. Ad oggi, non esiste alcuna normativa che imponga l’identificazione delle salme. A parte alcune tragedie di grandi dimensioni, per le quali è stato attivato un protocollo tra il Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’istituto di medicina legale della Statale di Milano e il Commissario straordinario per le persone scomparse, tutto il resto è demandato alla forza di Caritas, associazioni volontarie e progetti internazionali. Proprio uno di questi, Human cost of Border Control dell’Università di Amsterdam, ha dimostrato il basso numero di vittime riconosciute dalle autorità europee, individuando il dato peggiore in Sicilia, dove avviene la maggioranza dei naufragi, e ne vengono identificate solo il 22 per cento. I corpi recuperati dal mare dormono sulla collina mentre qualcuno forse li cerca ancora, magari nella speranza di ritrovarli vivi.

La salma di Nebiat è tornata in Eritrea, gli altri – temiamo – aspetteranno per sempre.

Da lavialibera n° 22, Altro che locale

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