Foto di Greenpeace
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Pfas, contro i divieti c'è chi vuole cambiare la definizione. Per alcuni scienziati è una mossa politica

L'Unione internazionale della chimica pura e applicata vorrebbe cambiare la definizione di certe sostanze chimiche per evitare blocchi alla produzione. Il coordinatore del gruppo di lavoro è un professore che opera insieme alla multinazionale Solvay Solexis

Laura Fazzini

Laura FazziniGiornalista

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

12 giugno 2025

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L’Unione internazionale della chimica pura e applicata (Iupac), ente che raggruppa organizzazioni accademiche, singoli scienziati e 70 aziende del settore, ha redatto una nuova definizione di pfas nel tentativo di salvaguardare la produzione dei composti e, allo stesso tempo, arginare le proteste di organizzazioni, associazioni e cittadini che chiedono di vietare, o quantomeno limitare, le sostanze perfluoroalchiliche, pericolose per la salute umana.

L’intento dello Iupac è ridurre i parametri relativi alle caratteristiche chimico-fisiche dei pfas necessari per vietarli. Il loro timore è che se a livello europeo si decidesse di mettere al bando l’intera famiglia di pfas, crollerebbe un mercato che rende profitti enormi. 

Il 10 giugno un gruppo di scienziati ha pubblicato una lettera sulla rivista scientifica Environmental Science&Technology a difesa dell’attuale definizione di pfas, adottata dalla Commissione europea ma ora messa in discussione dallo Iupac: “Temiamo che questo sforzo sia motivato da ragioni politiche ed economiche, piuttosto che scientifiche”, hanno scritto gli scienziati.

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Cambiare la definizione di pfas per evitare i blocchi

“Temiamo che questo sforzo sia motivato da ragioni politiche ed economiche, piuttosto che scientifiche”Lettera di un gruppo di scienziati - Environmental Science & Technology

Oggi le caratteristiche che possono determinare lo stop alla produzione di pfas sono essenzialmente due: il verificarsi di bioaccumulo e la persistenza. Una volta assorbiti dall’organismo, i composti si accumulano lentamente e non possono essere distrutti, causando danni irreparabili. Altre caratteristiche sono la tossicità e la mobilità, quest’ultima intesa come la capacità dei composti di spostarsi e, ad esempio, raggiungere l’acqua. La proposta avanzata dallo Iupac punta a mantenere solo il bioaccumulo come elemento che può portare al divieto. “Ma è sufficiente cambiare un atomo per ottenere una molecola diversa, che comunque mantiene le stesse peculiarità della precedente – fa notare Sara Valsecchi, ricercatrice dell’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Cnr, tra le firmatarie della lettera del 10 giugno –. Per vietare il sostituto serviranno ulteriori analisi ma, visti i costi elevati, non sempre ciò è possibile”.

La mossa dell'Unione internazionale della chimica pura e applicata non sorprende e rientra in una più ampia strategia dove allungare i tempi serve e non fermare la produzione. Le aziende tengono pronti i “rincalzi” nel caso in cui uno o più pfas siano messi in discussione e così, come accaduto in passato, se certi composti sono dichiarati cancerogeni il sostituto è già pronto in casa. 

Il ruolo del professore italiano

Uno studio firmato da Pierangelo Metrangolo afferma che ci sia ancora molta difficoltà nel capire il comportamento di ciascun pfas negli organismi

Ad agosto 2023, in occasione della 52esima assemblea dello Iupac, una divisione si era riunita in Olanda per avviare i lavori su una nuova definizione di pfas. Lo Iupac è legittimato a proporre una sua definizione, con i membri interni che redigono una proposta e la presentano all’Assemblea generale. A coordinare la divisione e avanzare la prima richiesta di nuova definizione è stato Pierangelo Metrangolo, professore ordinario di chimica al Politecnico di Milano e, dal 2006, responsabile della partnership con Solvay Solexis sui nuovi materiali chimici.

Con la multinazionale belga, che dal 2002 è proprietaria del polo chimico di Spinetta Marengo (dove c'è già una forte contaminazione), ha brevettato diversi pfas. A dicembre 2024, nelle aule del dipartimento di chimica del Politecnico, Metrangolo ha coordinato sotto l’egida dello Iupac un convegno sulla nuova definizione di pfas. All’evento sono intervenuti diversi scienziati, tra cui esponenti dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche (Echa), dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), del Cnr e di Syensqo (ex Solvay).

Ad esempio, la tossicologa statunitense Janet Anderson, consulente ambientale per conto di numerose multinazionali, ha spiegato che i criteri scelti dallo Iupac per la nuova definizione includono il bioaccumulo ma non la persistenza e la mobilità. L’indicazione quindi differisce dalle ricerche sviluppate negli ultimi trent’anni dalla letteratura scientifica internazionale e, almeno secondo l’esponente dello Iupac, è la quantità assorbita a essere pericolosa e non la “qualità” della molecola. Un punto di vista confermato da Patrizia Maccone, responsabile del settore fluoropolimeri di Ausimont e ora manager di Syensqo Solvay: “I pfas non sono tutti uguali, i nuovi prodotti sono meno bioaccumulabili. Bisogna fare attenzione a come si definiscono dei prodotti di cui non possiamo fare più a meno”.

Il convegno tenuto a Milano ha prodotto, lo scorso marzo, un nuovo studio pubblicato da Asial chemical editorial society e firmato da Pierangelo Metrangolo, dalla sua collega e chair del convegno Valentina Dichiarante e dal ricercatore del Politecnico di Milano Lorenzo Secundo. Lo studio ricostruisce tutte le definizioni finora pubblicate, ma sottolinea come ci sia ancora molta difficoltà nel capire il comportamento di ciascun pfas negli organismi. “Si sostiene che i fluoropolimeri non vengano assorbiti dall'organismo a causa del loro elevato peso molecolare – si legge nel documento  – e questa prospettiva sostiene un approccio di classificazione più raffinato che tenga conto dei sottogruppi di pfas in base alle loro proprietà fisico-chimiche e ai loro profili di tossicità”.

Lo studio preannuncia in che modo vadano considerate alcune categorie di pfas ritenute “meno pericolose”, ad esempio i fluoropolimeri indicati nel 2009 dal gruppo di produttori, e di indicare per ogni pfas la singola tossicità. Il peso molecolare quindi diventa la chiave per esclusioni che riguardano anche pfas molto presenti in ambiente, come gli F Gases, prodotti dai refrigeratori e dall’industria farmaceutica, e l’acido trifluoroacetico (tfa), incluso nell’ultima legge europea per le acque potabili e considerato tossico dall’Agenzia per l’ambiente tedesca.

Lo studio di Metrangolo, inoltre, evidenzia il rischio di non avere dei sostituti per i pfas utilizzati in determinati settori, su tutti quelli della transizione ecologica e del mondo medicale. Lavialibera – che insieme ad altri media internazionali come Le Monde e Guardian partecipa al Forever Lobbying Project – ha chiesto a Metrangolo a che punto sia la loro definizione: “Il lavoro del task group è ancora in una fase preliminare e non è stato ancora prodotto alcun documento ufficiale. Pertanto, qualsiasi affermazione relativa all'esclusione di determinate classi di composti risulta prematura e non fondata su elementi concreti”. Nessuna risposta, invece, sul possibile conflitto d’interessi del professore, che dal 2006 coordina l’intero programma di partnership con la multinazionale Syensqo, l’ex Solvay.

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Possiamo fare a meno dei pfas?

“La famiglia dei pfas è davvero numerosa e le differenze tra composti sono sostanziali – spiega Valsecchi –. Oggi non tutti i pfas sono considerati pericolosi, ma molto dipende dal loro utilizzo. Sui pesticidi, che entrano a contatto con gli alimenti, i controlli sono stringenti perché l’obiettivo prioritario del regolamento europeo è sempre stato tutelare la salute umana. Il teflon, ad esempio, è considerato persistente, e quindi non degrada con processi naturali, ma questa sola caratteristica non è sufficiente per vietarne la produzione”.

"Oggi non tutti i pfas sono considerati pericolosi, ma molto dipende dal loro utilizzo", spiega la ricercatrice Sara Valsecchi

“Il vero problema – aggiunge la ricercatrice – è che ogni Stato può porre dei limiti o vietare la produzione di pfas, anche se solitamente queste decisioni spettano all’Agenzia europea delle sostanze chimiche (Echa). Per arrivare al divieto la strada è lunga ma in assenza di analisi, anche se vi è il sospetto che uno o più composti siano pericolosi, nulla vieta che si continui a produrli. Prendiamo il caso dell pfoa: è stato dimostrato che è cancerogeno e quindi vietato. Ma se nessuno avesse compiuto le analisi oggi sarebbe ancora in produzione”.

Nel far west normativo, esistono degli accordi volontari come la Convenzione di Stoccolma, alla quale l'Italia ha aderito soltanto l’anno scorso, ma in sostanza ciascun paese decide per conto proprio su quali limiti e divieti introdurre nella normativa nazionale. Il rimando immediato è al caso Eternit, l’azienda specializzata nella produzione di cemento amianto, le cui fibre sono cancerogene. In Italia l’Eternit è stato messo al bando nel 1992, in anticipo di tredici rispetto all’Europa, ma continua a essere prodotto in altri paesi, ad esempio in Brasile, mentre in altri, come Canada e Ucraina, il divieto è arrivato soltanto pochi anni fa.

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“È chiaro che vietare tutti i pfas sia impossibile – dice Valsecchi –. Mi riferisco ad esempio a quelli utilizzati per fabbricare le valvole cardiache, ma certi composti presenti nei giubbotti termici o nella sciolina non sono essenziali e quindi potremmo farne tranquillamente a meno”. “La rinuncia ai pfas – conclude la ricercatrice – è motivata dal fatto che, rispetto a pochi anni fa, oggi sappiamo quanto siano pericolosi. Tutti abbiamo bevuto acqua che contiene pfas, la contaminazione è ormai estesa”.

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