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26 settembre 2025
Cosa succede in carcere alle persone Lgbtqia+? Di certo l’identità non scompare e orientamento sessuale e identità di genere entrano insieme alla persona che varca il cancello. Troppo spesso però non si è in grado di farsene carico e diventano motivo di discriminazione, solitudine, negazione di diritti. Si tratta di un tema poco raccontato, per il quale mancano numeri, dove le testimonianze sono difficili da raccogliere e, di conseguenza, le politiche sono ancora parziali e spesso insufficienti. Antigone ha raccontato di questo in un report sull’Italia, recentemente pubblicato nell’ambito del progetto finanziato dalla Commissione europea “Strengthening the rights of Lgbtiq detainees in the EU”.
Sono 88 gli uomini gay detenuti, 76 le donne transessuali. Mancano dati sulle donne lesbiche, le persone intersessuali o non binarieDati del ministero della Giustizia
Un report che parte da una constatazione, cioè che quante siano oggi le persone Lgbtqia+ detenute nelle carceri italiane non lo sappiamo con certezza. A una richiesta di accesso civico generalizzato agli atti (Foia) presentato da Antigone, il ministero della Giustizia aveva risposto che a fine luglio 2025 gli uomini gay reclusi erano 88, mentre le donne trans 76.
Mancano però numeri ad esempio sulle donne lesbiche o sulle persone intersessuali o non binarie. E quelli relativi agli uomini gay, potrebbero non fotografare la situazione reale dato che in molti casi può prevalere la necessità per le persone di “nascondersi”, sapendo quanto il loro dichiararsi possa portare a discriminazione, ma anche ad atti ostili e persino violenti nei loro confronti. Questa assenza tuttavia non è neutra: rende le persone invisibili, e l’invisibilità diventa il primo ostacolo per riconoscere diritti, vulnerabilità, bisogni specifici.
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Quando una persona trans entra in carcere, il criterio resta quello del sesso biologico. Così una donna trans viene collocata in un istituto maschile, e un uomo trans in una sezione femminile, indipendentemente dal percorso personale o giuridico compiuto. Anche chi ha ottenuto la rettifica anagrafica spesso si scontra con resistenze o interpretazioni restrittive. Il risultato è una collocazione che nega l’identità.
C’è poi un altro dato generale, cioè che le donne trans sono generalmente collocate in apposite sezioni e difficilmente, se non in alcuni casi e per specifiche attività, possono incontrare le altre persone. Il che si trasforma in una forma di isolamento di fatto e in una riduzione delle opportunità che invece sarebbero importanti per il loro percorso di reinserimento sociale. Un discorso che non vale per gli uomini trans che, non costituendo un problema in termini di sicurezza, non necessitano di una collocazione ad hoc.
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Le cosiddette "sezioni protette omogenee", che ospitano soltanto donne trans o soltanto uomini gay, sono nate per proteggere, ma finiscono per isolare
Le donne trans o gli uomini gay, dunque, generalmente sono collocate nelle cosiddette “sezioni protette promiscue” dove si trovano anche altre categorie di detenuti a rischio aggressioni o discriminazioni, come le persone accusate o condannate per resti sessuali o gli ex appartenenti alle forze dell’ordine.
Dal 2018, poi, sono state create le cosiddette “sezioni protette omogenee”, che ospitano solo donne trans (ce ne sono sei in tutta Italia) o uomini gay (di queste ce ne sono tre). In teoria sembrerebbe una conquista mentre in pratica la protezione si traduce spesso in isolamento. Nelle sezioni protette le opportunità trattamentali e formative sono ridotte, le attività culturali scarse, i contatti con il resto della popolazione limitati. Chi vi è collocato finisce in una sorta di carcere nel carcere: tutelato dai rischi, ma privato di pari opportunità. Una protezione che diventa, in alcuni casi, segregazione.
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Il report curato da Antigone pone poi l’accento anche su altre barriere strutturali quotidiane. Ad esempio episodi di misgendering, che significa riferirsi alla persona utilizzando nomi e pronomi sbagliati, che non fanno riferimento all’identità che quella persona ha affermato. La sensibilità varia molto da istituto a istituto, ma la formazione del personale resta frammentaria.
A questo si aggiungono difficoltà nell’accesso alla salute: terapie ormonali interrotte o ritardate, assenza di specialisti, continuità terapeutica compromessa da trasferimenti e burocrazia. Ormai diversi anni fa, nel carcere di Sollicciano, avevo incontrato una detenuta trans che mostrò delle cicatrici sulle sue braccia e raccontò alla delegazione con cui eravamo in visita al carcere che erano dovuti a tagli che si era autoinflitta per richiedere attenzione alla sua richiesta di ricevere la terapia ormonale di cui necessitava. Per molte persone vivere in carcere significa affrontare una doppia pena: la restrizione della libertà e la negazione della propria identità.
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Nonostante le criticità, alcune esperienze positive esistono. In alcune carceri la collaborazione con associazioni come Arcigay ha portato laboratori, gruppi di supporto, momenti di confronto. Alcuni istituti hanno sperimentato corsi di formazione per il personale penitenziario, con l’obiettivo di ridurre discriminazioni e aumentare la consapevolezza. Sono esperienze parziali, ma dimostrano che un carcere più inclusivo è possibile.
Le eccezioni, però, non bastano. Senza un salto di qualità a livello nazionale, il destino delle persone Lgbtqia+ in carcere resta affidato alla sensibilità dei singoli direttori o alla presenza di associazioni esterne. Servono invece politiche strutturali che contemplino alcuni aspetti fondamentali. Raccolta dati: monitoraggi sistematici, su base volontaria e nel rispetto della privacy, per conoscere davvero la dimensione del fenomeno; salute: terapie ormonali e assistenza specialistica vanno garantite senza interruzioni; formazione obbligatoria del personale: perché il rispetto di nomi, pronomi e identità non dipenda dalla buona volontà del singolo agente; parità di opportunità: chi vive in una sezione protetta deve poter accedere ad attività formative, culturali, lavorative come il resto della popolazione detenuta.
Garantire i diritti delle persone Lgbtqia+ in carcere è un banco di prova della capacità di un sistema penitenziario di rispettare la dignità umana. Se un carcere sa tutelare chi è più vulnerabile, allora sarà più giusto per tutti. Se invece la protezione si trasforma in esclusione, quel che ne emerge è un sistema che produce disuguaglianze, non che le riduce.
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