
Le armi bruciano il pianeta


1 novembre 2025
Giovedì 16 ottobre, ore 18. A Binaria, il Centro Commensale del Gruppo Abele, si tiene un incontro dedicato alla memoria di Giancarlo Siani, organizzato da lavialibera insieme a Libera e alla Fondazione Siani. Intervengo in quota Articolo 21.
Giancarlo Siani fu assassinato quarant’anni fa per un articolo sull’arresto del boss Valentino Gionta, nel territorio dei Nuvoletta: un testo che incrinava l’immagine del clan, disposto a tradire un alleato per nuovi equilibri criminali. Altro che codice d’onore: mafiosi corrotti, avidi, traditori. Un attacco insopportabile alla rappresentazione che volevano dare di sé.
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Negli anni Ottanta e fino al 1994 la mafia però colpiva non solo giornalisti, ma anche magistrati, forze dell’ordine, preti, sindacalisti, medici, amministratori. La violenza era diffusa, collettiva, “politica” nel senso più ampio. Poi qualcosa è cambiato. Dal “fallito” attentato allo stadio Olimpico in poi, la violenza ha ristretto il mirino: oggi il bersaglio è quasi solo il giornalista, o chi, invece di farsi i fatti propri, scava, documenta, scrive, parla. Il 16 ottobre del 2017, a Malta, veniva assassinata Daphne Caruana Galizia. Alla sua storia si legano quelle di Jan Kuciak e Martina Kusnirova, di Peter de Vries, di Andy Rocchelli e Andrej Mironov, di Giulio Regeni, di Mario Paciolla, e dei quasi trecento giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano. Il mio “omicidio zero” resta quello di Vittorio Arrigoni, a Gaza, nel 2011. Credo – senza prove ma con indizi – che anche la sua morte sia una falsa bandiera.
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Perché i giornalisti? Perché la violenza politica, spesso intrecciata con mafie e fanatismi, si accanisce contro chi racconta la realtà? Forse non si tratta solo di impunità. Oggi la posta in gioco è lo “storytelling” del potere. Ogni criminale, ogni tiranno, partecipa all’ossessione social dell’auto-rappresentazione. Il giornalista – ficcanaso, scassaminchia – non distrugge il sistema giudiziario del potente, ma incrina la sua narrazione. E questo, nell’epoca narcisistica dei social, è insopportabile.
Basta guardare al Maranzano che, dopo aver ucciso Paolo Taormina a Palermo, non fugge, non si costituisce, ma registra un video su TikTok con le parole di Riina in sottofondo. È lo stesso impulso che muove chi ha fatto tacere Daphne, o i suoi colleghi slovacchi, egiziani, colombiani, ucraini, italiani. Non temono la punizione – sanno di restare impuniti – ma temono la verità. È una vergogna aggressiva, tipica del narcisismo di massa: la stessa che armò i killer di Siani, sputtanati da un giornale di carta e non da una diretta social.
Ore 22.17, Giovedì 16 ottobre: un ordigno esplode sotto l’auto di Sigfrido Ranucci, parcheggiata davanti casa (leggi qui). Il giornalista era appena rientrato da dieci giorni di trasferta e commenterà: "In pochi sono in grado di fare una cosa del genere". Appunto.
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