Roma, 31 luglio 2025. L'ex procuratore di Palermo e Torino, Gian Carlo Caselli, nel corso della prima parte della sua audizione davanti alla commissione parlamentare antimafia nell'ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D'Amelio (Foto Risveglia/Comunicazione della Camera dei deputati)
Roma, 31 luglio 2025. L'ex procuratore di Palermo e Torino, Gian Carlo Caselli, nel corso della prima parte della sua audizione davanti alla commissione parlamentare antimafia nell'ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D'Amelio (Foto Risveglia/Comunicazione della Camera dei deputati)

Gian Carlo Caselli in commissione antimafia smonta la pista mafia-appalti sull'attentato a Borsellino

Nel proseguo della sua audizione, l'ex procuratore di Palermo e Torino mette in fila gli elementi contrari alla tesi cara agli ex vertici del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno e alla destra: "Nessun ufficiale mi informò circa l'interesse di Borsellino per mafia-appalti"

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

19 novembre 2025

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La principale preoccupazione di Paolo Borsellino prima di morire nell’attentato del 19 luglio 1992 non sarebbe stata l’inchiesta mafia-appalti, tesi che la commissione parlamentare antimafia sta accreditando come ragione per la quale Cosa nostra decise di uccidere il magistrato, ma la strage di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Lo ha ribadito Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e di Torino, martedì 18 novembre nel corso della sua audizione. Si tratta della seconda e ultima presenza in Commissione, dopo la prima del 31 luglio scorso.

Cos’è la pista mafia-appalti?

L’organismo presieduto dalla deputata FdI Chiara Colosimo sta dedicando moltissime energie (quasi il 30 per cento del tempo delle riunioni plenarie) a indagare le cause della strage di via D’Amelio con l’obiettivo di far luce sulla morte di Borsellino. Nell’approfondire la questione, ha dato molto spazio alle tesi sostenute dagli ex ufficiali del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, Mario Mori e Giuseppe De Donno (coinvolti e poi assolti nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia), secondo cui la morte del procuratore palermitano è legata alla volontà di approfondire un’inchiesta da loro condotta, quella sui legami tra Cosa nostra e alcune grosse imprese del Nord Italia interessate agli appalti in Sicilia, con un giro di tangenti ai politici.

“Mori e De Donno lamentano di aver subito una macchinazione giudiziaria ordita per impedire loro di portare alla luce le responsabilità dei magistrati”, ha ricordato Caselli, secondo il quale i due sarebbero addirittura arrivati a ipotizzare che molti depistaggi della storia italiana e la sparizione dell’agenda rossa su cui Borsellino appuntava informazioni riservate “potrebbero essere stati perpertrati dallo stesso gruppo di magistrati della procura”, una “esagerazione” che “non appare consona al prestigio professionale di cui godono gli ufficiali dell’Arma”.

Caselli: "La pista su mafia e appalti sminuisce il valore di Falcone e Borsellino"

Le certezze di Caselli contro le teorie del Ros

“Nessun ufficiale mi informò circa l’interesse di Borsellino per mafia-appalti”Gian Carlo Caselli

Caselli ha esposto le ragioni che lo portano a escludere la pista mafia-appalti. Al suo arrivo a Palermo per guidare la procura, nel 1993, Caselli incontrò gli ufficiali del Ros, nei quali aveva fiducia “per i positivi trascorsi con il gruppo del generale Dalla Chiesa sul versante antiterrorismo”, ma “nessun ufficiale mi informò circa l’interesse di Borsellino per mafia-appalti”: “Se fossi stato informato, avrei certamente informato a mia volta i colleghi nella prima delle riunioni”. Ha citato il ricordo di Davide Monti, ultimo collega che ha parlato con Borsellino, e una conversazione del 18 luglio: “Le organizzazioni mafiose avevano un disegno criminale, una strategia progressiva cominciata con Lima (Salvo, politico della Democrazia cristiana ucciso per non esser riuscito a evitare la condanna definitiva del maxi-processo a Cosa nostra, ndr) e proseguita con Capaci, di cui lui, Paolo Borsellino, sarebbe stato sicuramente il prossimo obiettivo dopo Falcone”.

Caselli ha passato in rassegna anche altre informazioni per rigettare la pista cara a Mori e De Donno quale unica ragione della strage di via D’Amelio: “Agnese Borsellino non ha mai parlato del rapporto mafia-appalti, eppure Paolo Borsellino le confidava anche i segreti più delicati e scabrosi, come il fatto di aver appreso che il generale Subranni (Antonio, comandante del Ros morto nel 2024, ndr) era punciutu”, cioè mafioso. Ha rievocato i ricordi di Diego Cavaliero, amico di Borsellino, che lo incontrò in un convegno di Magistratura indipendente a Giovinazzo e ancora il 12 luglio 1992 a Salerno: “Cavaliero dice che Borsellino appare diverso dal solito, ha perso l’abituale giovialità, è quasi assente. Aveva fretta di trovare la chiave sulla strage di Capaci. Avrebbe voluto una giornata di 48 ore. E non si parla di mafia e appalti”. Ha ricordato, poi, le dichiarazioni di Antonio Ingroia, prediletto tra gli allievi di Borsellino e altri colleghi: “Nessun accenno a mafia-appalti”. Anzi, Vittorio Teresi, che aveva avuto buoni rapporti con Borsellino, si è detto convinto che Borsellino fosse preoccupato dalla strage di Capaci e dalla presunta pista nera.

L’intervento di Paolo Borsellino a Casa Professa il 25 giugno 1992

“L’intervento di Paolo Borsellino a Casa Professa era una ‘bomba’ per i mafiosi che ascoltavano, una bomba pronta a scoppiare"

Secondo Gian Carlo Caselli, c’è un discorso di Borsellino che è rivelatore ed è l’intervento tenuto nella biblioteca comunale di Casa Professa il 25 giugno 1992, oltre un mese dopo la strage di Capaci. Partecipando a quell’incontro, Borsellino aveva ripercorso l’isolamento e gli attacchi a Giovanni Falcone e aveva aggiunto di essere un testimone, di aver raccolto “molte confidenze”: “Questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone”, aveva detto Borsellino. E ancora: “Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico”. Notava che l’attentatuni avvenne quando Falcone era in procinto di diventare “direttore nazionale antimafia”, a capo del nuovo organismo, il pool nazionale antimafia, quella che è la Direzione nazionale antimafia, un ruolo che gli avrebbe permesso di riprendere a fare il magistrato inquirente dopo la mancata elezione a capo dell’Ufficio inquirente di Palermo da parte del Consiglio superiore della magistratura. Eppure Borsellino non fu mai chiamato come persona informata sui fatti dalla procura di Caltanissetta, incaricata di indagare sulla strage di Capaci, a verbalizzare queste sue informazioni.

Secondo Caselli, quanto detto dal magistrato siciliano il 25 giugno 1992 aveva innescato un’altra reazione. “L’intervento di Paolo Borsellino a Casa Professa era una ‘bomba’ per i mafiosi che ascoltavano, una bomba pronta a scoppiare. Ecco l’ordine di Giovanni Brusca, quello di non uccidere Calogero Mannino (altro politico siciliano della Dc, ndr), ma Borsellino. A me sembra molto evidente – ha detto ai componenti della commissione antimafia –. Le parole di Borsellino, soprattutto nella parte finale del suo intervento a Casa Professa, sono parole di un uomo incupito, addolorato per la scomparsa dell’amico, ma niente affatto disposto ad arrendersi che non si rassegna, ma vuol continuare la battaglia”. A sostegno di questa sua ipotesi, ha portato altri elementi, come le dichiarazioni di alcuni pentiti, tra cui Antonino Giuffrè, che ricordava una riunione della commissione provinciale di Cosa nostra nel dicembre 1991 nella quale il capo dei capi Totò Riina ordinò chiudere i conti con Falcone, Borsellino e con alcuni politici considerati traditori, come Lima. Anche Giovanni Brusca ha riferito di aver ricevuto da Riina l’input per anticipare l’attentato.

“Sommando tutti gli elementi fin qui portati – ha affermato Caselli – è fuori dubbio, persino scontata visto l’esito letale, la pericolosità di Borsellino nella valutazione di Cosa nostra. Ma è ragionevole escludere la conferibilità di mafia-appalti come causa men che mai esclusiva della sua eliminazione”. Certo, Borsellino “alla ricerca delle cause dell'uccisione dell’amico Falcone, intendeva studiare il rapporto mafia-appalti”, tuttavia “senza prestargli grande attenzione”. L’interesse c’era, ma “non era ancora sfociato in nessuna effettiva attività di indagine e non aveva avuto nessuna risonanza pubblica. Pertanto, non ci sono elementi sufficienti per ritenere che Cosa nostra potesse ravvisarvi un qualche pericolo forte, vivo, concreto, attuale”.

Tutto ciò vuol dire che l’originaria indagine sui legami tra Cosa nostra e imprese del nord per appalti e tangenti era stata imboscata? Niente affatto. “Possiamo constatare che furono arrestati circa 150 tra mafiosi, politici, funzionari e imprenditori e che vi fu un ampio ricorso alle misure di prevenzione patrimoniale, colpendo in un caso e nell’altro anche personaggi decisamente di rilievo”. Soltanto alcune posizioni, su cui non erano state trovate abbastanza prove, erano state archiviate.

Il rapporto tra la procura di Palermo e il Ros dei carabinieri

la pista mafia-appalti dietro la strage di via D’Amelio è per Caselli una “tesi indimostrata e ingiusta, non dimostrata e indimostrabile”, addirittura “non rispettosa della grandezza e degli straordinari meriti di Borsellino”

“A volte sembrano riemergere vecchie pulsioni ostili, contro la procura da me diretta, colpendo alcuni magistrati simbolo, in prima linea nelle indagini sulle strategie stragiste dei corleonesi”, ha proseguito Caselli. Il riferimento sembra essere soprattutto a Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s contro il quale è stata proposta una legge per escluderlo di fatto dai lavori della commissione antimafia.

L’ex procuratore di Palermo e Torino ha ripercorso molti episodi del difficile rapporto tra gli uffici palermitani e gli ufficiali del raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, e ha denunciato ad esempio un “doppio gioco inquietante” del Ros sul fronte della gestione delle dichiarazioni di un imprenditore vicino a Cosa nostra, Giuseppe Li Pera, tra Catania e Palermo: “Si intuisce una regia astuta che duplica e manipola dossier riguardanti le stesse notizie di reato poi sottoposti a differenti uffici giudiziari. Sono evidenti gravi violazioni, violazioni inammissibili delle regole sulla competenza dei pm e sul coordinamento delle indagini”. Il comportamento del Ros “è un giallo, almeno per me”, ha detto aggiungendo che il capitano De Donno è per lui inaffidabile.

Ha ricordato la campagna stampa del 1991 contro la procura di Palermo: “L’accusa fatta filtrare secondo la stampa dai carabinieri del Ros è di avere insabbiato la posizione di importanti personalità politiche anche con incarichi di governo”, mentre i magistrati non avevano alcun atto contenente quei nomi. Ha anche fatto un riferimento alla vicenda della mancata perquisizione al covo di Riina, dopo l’arresto del capo dei capi. Il Ros aveva chiesto e ottenuto la possibilità di rinviarla, tenendo il nascondiglio sotto stretta osservazione: “Così, invece, non fu e la procura non venne informata. E quando finalmente entrammo nel covo, lo trovamo, purtroppo, completamente spogliato”. Il reparto speciale dei carabinieri rispose che aveva stabilito di sospendere la sorveglianza muovendosi “in uno spazio di autonomia decisionale consentito”, ha ricordato citando quanto sostenuto dall’allora sostituto procuratore Luigi Patronaggio (oggi procuratore generale a Cagliari), secondo cui si tratta del metodo Mori, “espressione di una serialità nell’agire autonomamente al di fuori di fastidiosi controlli e autorizzazioni dell’autorità giudiziaria”.

In definitiva, la pista mafia-appalti dietro la strage di via D’Amelio è per Caselli una “tesi indimostrata e ingiusta, non dimostrata e indimostrabile”, addirittura “non rispettosa della grandezza e degli straordinari meriti di Borsellino”.

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I dubbi della destra

Terminata la sua relazione, la presidente Colosimo ha posto a Caselli tre domande chiedendo come prima cosa perché Borsellino parlasse della procura di Palermo come “nido di vipere”: “È facile da decifrare. I rapporti dell’allora procuratore Giammanco (Pietro, ndr), prima con Falcone e poi con Borsellino, erano tutt’altro che normali. Erano punitivi nei confronti di Falcone, costretto ad emigrare a Roma al ministero. È un dato di fatto”. Un’altra domanda ha riguardato il finto pentito Vincenzo Scarantino, istruito dalla polizia per depistare le indagini della procura di Caltanissetta sulle stragi. “Di Scarantino non so niente. Quando i colleghi di Palermo lo ascoltarono, in particolare il collega Sabella (Alfonso, ndr), capirono subito che era un bluff. Quello che riguarda Scarantino riguarda la procura di Caltanissetta, non Palermo”.

Maurizio Gasparri, strenuo sostenitore delle tesi di Mori e De Donno, ha già annunciato che interverrà per chiarire quelle che lui ritiene inesattezze di Caselli: “Sono state dette inesattezze, ma chi conosce la storia le contesterà e le smonterà una per una, a colpi di sentenze e di citazioni esatte. Lo show che è stato messo in piedi, soltanto per andare in soccorso di Scarpinato, finirà in maniera miserevole”.  

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