
Il forum sull'eredità olimpica di Milano-Cortina 2026 non è mai entrato in funzione

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

31 luglio 2025
“Non abbiamo elementi sufficienti” per collegare la strage via D’Amelio all’indagine mafia-appalti, lo ha affermato Gian Carlo Caselli, magistrato che ha guidato la procura di Palermo dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, ascoltato oggi dalla commissione parlamentare antimafia nell’ambito dell’indagine sull’attentato contro Borsellino del 19 luglio 1992. La tesi su cui si addensano i dubbi del giudice è quella cara alla destra al potere, secondo cui Paolo Borsellino è stato ucciso perché voleva approfondire gli intrecci affaristici tra Cosa nostra e grandi imprese del nord, in particolare il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, imprenditore coinvolto anche nell’inchiesta Mani pulite della procura di Milano. Accreditare questa pista vorrebbe dire “svalutare” le figure di Borsellino e Giovanni Falcone.
Strage di via D'Amelio, le ultime piste della procura di Caltanissetta
Nel suo intervento (che proseguirà in un'altra audizione), Caselli ha voluto contestare l’ipotesi seguita dalla commissione guidata da Chiara Colosimo. “Falcone e Borsellino sono stati due eroi moderni, di epica grandezza, veri giganti della storia non soltanto giudiziaria e non soltanto italiana: sostenere che sono stati uccisi esclusivamente perché volevano occuparsi di mafia e appalti equivale a farne dei funzionari onesti, solerti e capaci, ma ben dal di sotto del loro valore storico”.
"Vengono svalutati, retrocessi a bravi funzionari, professionisti delle gare regolari e dei conti in ordine, e sarebbe un’operazione in perdita per l’immagine dei due magistrati"
I due magistrati uccisi dalla mafia avevano lavorato al maxi-processo alla cupola di Cosa nostra: “Se trasformiamo gli artefici di un capolavoro giudiziario – dimostrazione pratica che la mafia non è invincibile – in esperti di società e bilanci, depotenziamo le loro figure. Vengono svalutati, retrocessi a bravi funzionari, professionisti delle gare regolari e dei conti in ordine, e sarebbe un’operazione in perdita per l’immagine dei due magistrati, per il nostro paese e per i giovani che non vogliono adagiarsi nell'indifferenza, nel disimpegno e nella rassegnazione, ma vogliono piuttosto operare per ottenere risultati socialmente utili”. Un riferimento, dichiarato dallo stesso Caselli, alla storia della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che spesso ha affermato di aver iniziato il suo impegno politico spinta dalla strage di via D’Amelio.
Invece “sia Falcone, sia Borsellino, sono stati uccisi per una vendetta postuma di Cosa nostra che li riteneva i suoi peggiori nemici e allo stesso tempo un tentativo di seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente, quello del lavoro del pool antimafia”, ha aggiunto Caselli. E questa chiave di lettura permetterebbe di dare una “lettura unitaria” agli attentati del 1992 e del 1993, e non parcellizzata come quella che la commissione vuole, dando credito alla pista mafia-appalti.
“In più Borsellino fu fermato per impedire che riferisse ai magistrati di Caltanissetta (incaricati di indagare sulla strage di Capaci, ndr), qualora Tinebra (Giovanni, procuratore, ndr) l’avesse mai convocato, il prezioso materiale raccolto di cui non faceva mistero”. Confidenze di Falcone e altri elementi che potevano essere utili, ma che la procura nissena non raccolse mai.
"Le stragi ci hanno costretto a essere migliori". Colloquio con Letizia Battaglia e Leoluca Orlando
Durante l'audizione Caselli, che è anche presidente onorario di Libera, ha offerto un excursus storico. “Dopo le stragi del 1992, quando – usando le parole di Antonino Caponnetto – sembrava non ci fosse più niente da fare, la procura e la magistratura tutta di Palermo furono in prima linea insieme alla politica, finalmente unita, alle forze dell’ordine, ai soldati e alla società civile dei ‘lenzuoli bianchi’ alle finestre, per fare resistenza e impedire che il nostro diventasse uno Stato-mafia”. I risultati erano stati importanti, come “il numero impressionante di mafiosi che si pentono”, il “segno di un cambio di egemonia politica e sociale perché il mafioso si pente quando si fida dello Stato”. Grazie a loro “riusciamo a catturare un numero alto di mafiosi e latitanti”. E poi ci sono i processi “contro l'ala militare di Cosa nostra, che ha subìto colpi durissimi (come le condanne a 650 ergastoli e centinaia di anni di carcere) e una nuova strategia d’attacco al lato oscuro e ai suoi rapporti tra pezzi Stato e boss”.
Per questo Caselli ha affermato che “nessuno pretende che i pm di Palermo vengano pensati come salvatori della patria, ma quei magistrati hanno diritto a rispetto autentico e spargere fango non è compito della commissione antimafia”. Tra gli obiettivi del suo intervento, c’è la volontà di “dimostrare che tra 1992 e 1999 la procura di Palermo non ha avuto una cattiva gestione della materia mafia-appalti” e quella di “controbattere ad alcune critiche pregiudiziali e ingenerose che vengono mosse alla procura di Palermo o a me direttamente a me”.
Lui aveva fatto la domanda per andare nel capoluogo siciliano dopo le stragi, in seguito alle dimissioni del procuratore capo Pietro Giammanco, duramente sfiduciato da otto sostituti procuratori, che lo accusavano di aver isolato Falcone e osteggiato Borsellino. “Quando mi sono insediato alla procura di Palermo la prima cosa che ho detto ai colleghi è che avremmo dovuto lavorare tutti insieme senza guardare indietro o il rischio sarebbe stato di andare a sbattere: nessuno ha remato contro di me, ma abbiamo tutti lavorato come un blocco coeso raccogliendo il testimone di Falcone, Borsellino, Scaglione, Costa, Chinnici e Terranova cercando di ispirarsi al loro esempio. Se mai ci fu un nido di vipere se ne è dispersa la traccia”, ha aggiunto Caselli riprendendo un’espressione attribuita a Borsellino.
Caselli individua nella sete di vendetta di Totò Riina e nella volontà di fermare il regime di carcere duro del 41-bis i moventi delle stragi: "La strage potrebbe essere stata compiuta per ribadire, raddoppiando l'efficacia offensiva, le stesse ragioni per le quali era stato ucciso Falcone, ovvero un tentativo di soffocare nel sangue il metodo del pool antimafia"
Caselli ha dedicato qualche parola al generale dei carabinieri Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno, processati e assolti nel processo sulla trattativa Stato-mafia (leggi qui). Ha ricordato le occasioni in cui, insieme a loro e ad Antonio Ingroia, hanno interrogato l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, in carcere: “Soltanto una trentina di anni dopo il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno decisero di accusare me e Ingroia con una tesi sbagliata e lesiva nei nostri confronti. Secondo loro non avremmo adeguatamente sfruttato per le indagini l’ex sindaco mafioso Ciancimino – ha detto l’ex procuratore di Palermo –. A noi è sembrato si muovesse secondo un copione preciso, per sfruttare gli inquirenti”. In sostanza, il suo pentimento non era affidabile.
Da interventi, libri e scritti di Mori e De Donno emergono “recriminazioni rancorose” che sono la “chiave di lettura di molte analisi”, ha detto Caselli ricordando “una sorta di anatema e di fatwa” di Mori che, in un’intervista a Gaia Tortora, ha affermato di voler vivere abbastanza a lungo per vedere la morte dei suoi accusatori.
Trattativa Stato-mafia: ci fu, ma il reato è solo dei boss
“La tesi che punta sul collegamento tra Borsellino e l’indagine mafia-appalta porta la commissione in un vincolo cieco”, ha aggiunto Caselli, che ha voluto indicare altre piste. Cosa nostra era preoccupata del fatto che Borsellino avrebbe guidato la procura più del suo superiore, Pietro Giammanco; di quel che il pentito Gaspare Mutolo o altri potevano rivelare e di altri; di nuovi collaboratori di giustizia, convinti dal carisma di Borsellino. Tra gli spunti indicati da Caselli, ci sono i contenuti dell'intervista rilasciata da Borsellino alla tv francese Canal+, come gli affari tra la mafia palermitana e Silvio Berlusconi, la possibile pista nera legata ai rapporti tra Cosa nostra e neofascismo, di cui aveva parlato il pentito Alberto Lo Cicero. Caselli ha fatto anche riferimento al possibile intervento di un amico che aveva tradito Borsellino, come confessato dal magistrato alla moglie prima di morire, e ad alcune piste investigative indicate da Roberto Scarpinato, ex procuratore e ora senatore del M5s osteggiato dalla destra.
Immancabile il commento del solito Maurizio Gasparri (Forza Italia), strenuo difensore di Mori e De Donno, che alle agenzie afferma, rivolgendosi a Caselli: "Lei può continuare a fare i comizi che vuole, ma noi, ai suoi comizi, non crediamo". "Dire ripetutamente delle sciocchezze fondate su falsità non fa di esse delle verità. Il senatore Gasparri prima o poi imparerà questo antico insegnamento", hanno risposto i componenti M5s della commissione antimafia.
"Con l'audizione di Gian Carlo Caselli la commissione antimafia ha vissuto un momento di grande rilievo – ha affermato Walter Verini, capogruppo Pd –. L'audizione di Caselli potrà continuare, compatibilmente con il calendario parlamentare e quello dello stesso ex-magistrato che ringraziamo anche per essere venuto in persona da Torino, nonostante le condizioni di salute". Il capogruppo dem ha inoltre definito "sguaiate e irrispettose" le parole di Gasparri, "che ha usato toni intimidatori che spesso lo contraddistinguono".
Crediamo in un giornalismo di servizio ai cittadini e alle cittadine, in notizie che non scadono il giorno dopo. Aiutaci a offrire un'informazione di qualità, sostieni lavialibera
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
Olimpiadi di Milano-Cortina 2026: tutte le promesse tradite
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti