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28 novembre 2025
Il 21 novembre, durante un convegno promosso da Antigone, si è tornati a parlare dei garanti delle persone private della libertà, figure che spesso restano ai margini del dibattito pubblico, relegate a un ruolo percepito come “tecnico” o “di nicchia”, ma che invece rappresentano uno dei pochi argini istituzionali rimasti nei luoghi più fragili della Repubblica. E non è un caso che se ne parli proprio ora, in un momento in cui il sistema penitenziario attraversa una crisi profonda: sovraffollamento tornato a livelli allarmanti, eventi critici in aumento, una percezione diffusa – dentro e fuori gli istituti – di crescente chiusura, non solo fisica ma culturale.
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Negli ultimi anni molti segnali indicano che la vita detentiva si sta progressivamente irrigidendo, con meno spazi di attività, meno progettualità e più tempo in cella. Una tendenza che contrasta apertamente con lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione e con la prospettiva di una pena che non sia solo contenimento, ma occasione – diversa per ciascuno – di cambiamento. È in questo quadro che il ruolo dei garanti diventa ancora più decisivo: non si tratta di un orpello burocratico, ma un presidio di umanità, trasparenza e monitoraggio.
Per capire perché queste figure sono così importanti, occorre partire dalla loro natura ibrida e, in fondo, unica: non sono giudici o pubblici ministeri e neppure rappresentano l’amministrazione penitenziaria. Semmai, sono istituzioni “ponte” e la loro funzione è osservare, ascoltare, segnalare, intervenire quando necessario. Ma, soprattutto, garantire che i diritti delle persone private della libertà non restino sulla carta.
I garanti non sono giudici o pubblici ministeri e non rappresentano l’amministrazione penitenziaria. Semmai, sono istituzioni “ponte” il cui compito è garantire che i diritti delle persone private della libertà non restino sulla carta
Questa impostazione risponde a una logica internazionale precisa. Nel 2002 l’Onu ha approvato l’Optional protocol to the convention against torture (Opcat), che andava a integrare la Convenzione contro la tortura del 1984 e prevedeva in ogni Stato la creazione di un National preventive mechanism (Npm), un organismo indipendente incaricato di monitorare i luoghi di privazione della libertà per prevenire abusi, trattamenti inumani e violazioni sistemiche.
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L’Italia ha ratificato il protocollo nel 2013, quindi l’anno successivo ha istituito la figura del garante nazionale, un’autorità che svolge esattamente il ruolo previsto dall’Onu. Questo è un punto cruciale: il garante, per sua natura, non è un osservatore esterno messo lì per gentile concessione, ma parte di un sistema internazionale di controllo democratico dei luoghi meno visibili. Un meccanismo che funziona solo se è indipendente, autorevole e riconosciuto.
Il garante nazionale ha svolto ispezioni negli istituti penitenziari, ma anche in quei luoghi dove spesso il dibattito pubblico si ferma sulla soglia: i centri di permanenza per il rimpatrio, gli hotspot, le navi quarantena utilizzate durante la pandemia, persino il monitoraggio dei rimpatri forzati. Interventi che hanno prodotto risultati concreti. Alcune ispezioni hanno portato alla chiusura temporanea di reparti, al miglioramento delle condizioni materiali, alla revisione di procedure interne, alla denuncia di trattamenti contrari alla dignità.
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Altre volte si tratta di risultati più silenziosi: un detenuto che ottiene una visita medica negata, un reparto che viene riaperto con criteri diversi, una prassi amministrativa che cambia. È un lavoro fatto di migliaia di piccoli atti, che raramente finiscono sui giornali ma che incidono sulla vita quotidiana delle persone. C’è poi l’aspetto fondamentale del racconto, fatto di report e di una relazione annuale al parlamento che approfondisce la condizione di quei luoghi di privazione della libertà, suggerendo interventi affinché la dignità non rimanga sulla porta. Lavoro che, da qualche tempo, ha iniziato a diradarsi.
Era il 1997 quando Antigone promosse a Padova un convegno per lanciare, prima fra tutte, la proposta di istituire un garante nazionale. Nei 17 anni successivi iniziarono a essere istituiti garanti regionali e comunali. Il primo nacque a Roma, dove fu Patrizio Gonnella, che poi diventerà presidente dell’Associazione, a promuoverlo. La proposta venne presentata in consiglio comunale da Luigi Nieri e Silvio Di Francia, e l’allora sindaco Walter Veltroni indicò Luigi Manconi come primo garante cittadino.
Nel corso degli anni ne sono seguiti a decine, nati in tempi diversi, con competenze variabili e risorse spesso insufficienti. Un mosaico irregolare, specchio della frammentazione del Paese. Ci sono territori dove il garante è una presenza quotidiana negli istituti, capace di instaurare relazioni con volontariato, enti locali e magistratura di sorveglianza. Da altre parti, invece, il ruolo resta sulla carta, privo di personale o perfino di sede.
Ci sono territori dove il garante è una presenza quotidiana negli istituti, da altre parti invece il ruolo resta sulla carta
Ci sono poi nomine che fanno discutere, per un profilo che di reale indipendenza ha poco o nulla. Una disomogeneità che pesa, in quanto la qualità della vita detentiva dipende anche dalla capacità del territorio di costruire progetti, attività, percorsi di reinserimento. Quando il sistema penitenziario si chiude, la società civile diventa ancora più essenziale. Ma per essere efficace deve poter entrare, conoscere, partecipare senza ostacoli amministrativi inutili.
Un modello più aperto – dove l’ozio in cella non sia la norma, ma l’eccezione – richiede una regia locale forte, nel quale il ruolo di osservazione indipendente dei garanti, di dialogo tra persone detenute, le loro famiglie, l’amministrazione penitenziaria, il territorio, è spesso fondamentale.
In un contesto simile è spesso l’assenza di indipendenza che rischia di pesare sulla reale efficacia di questa autorità di garanzia. Lo si evince osservando ciò che sta accadendo con il garante nazionale. Dal cambio del collegio non è stata più pubblicata una relazione al parlamento, una prassi consolidata quando a guidare l’ufficio era Mauro Palma.
Le visite di monitoraggio non restituiscono nessuna informazione e le prese di posizione pubbliche sono quanto mai rare. Come ha scritto Patrizio Gonnella sul Manifesto, “L’autorità oggi è una delle tante istituzioni formali che taglia nastri, visita ma non fa visite nei luoghi di privazione della libertà, non si apre e non informa la società. È il declino di un’istituzione che si propone come una voce non dissonante rispetto a quella ufficiale”.
“L’autorità oggi è una delle tante istituzioni formali che taglia nastri, visita ma non fa visite nei luoghi di privazione della libertà, non si apre e non informa la società", ha scritto Patrizio Gonnella
Non sorprende così la decisione assunta poche settimane fa dal governo che, nell’individuare un’autorità nazionale che avrebbe svolto il ruolo di meccanismo indipendente di monitoraggio dei diritti fondamentali, previsto dal Nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, ha scelto il garante della privacy. Infatti, se la scelta più importante poteva essere quella di dare vita a un’autorità indipendente sui diritti umani, in linea con i Principi di Parigi del 1991, cui l’Italia non ha ancora dato seguito, in assenza di questo “coraggio” la scelta più naturale, logica e coerente avrebbe voluto vedere il garante delle persone private della libertà investito di questa responsabilità, al netto del fatto che si tratti di un’autorità che già opera quotidianamente nel monitoraggio dei diritti delle persone migranti: nei cpr, negli hotspot, nei voli di rimpatri forzati.
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Competenze, esperienza e un mandato perfettamente allineato ai principi delle Nazioni Unite. E invece la decisione del governo è stata appunto un’altra: affidare il ruolo al garante per la protezione dei dati personali. Un’istituzione nata per altri scopi e senza alcuna expertise specifica rispetto al monitoraggio che andrà a fare. Questa scelta non è neutra. Trasmette l’idea, forse involontaria, ma chiara, che il lavoro del garante nazionale non sia centrale, non sia il perno su cui far ruotare la tutela dei diritti nelle situazioni di maggiore vulnerabilità. È un segnale di sfiducia istituzionale in un momento in cui la sua funzione sarebbe invece da rafforzare.
Il convegno del 21 novembre lo ha reso evidente: non basta difendere l’esistente. Serve un salto di qualità. Servono garanti con risorse adeguate, personale formato, un coordinamento nazionale forte, un rapporto stabile con la società civile. Servono procedure che garantiscano accesso agli istituti senza barriere inutili, valorizzando il ruolo del volontariato come attore del trattamento, non come presenza tollerata. Serve, soprattutto, che la politica riconosca apertamente che i garanti non sono un optional. Sono un pezzo della democrazia. Un pezzo fragile, certo, ma fondamentale. E che proprio per questo va protetto, non indebolito.
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