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22 dicembre 2025
Nelle prime ore di domenica 8 dicembre 2024, dopo una notte trascorsa a inseguire su Telegram le notizie sulla caduta del regime di Bashar al-Assad, molti giovani siriani hanno scoperto l’esistenza di un luogo a cui appartenere: “C’è di nuovo un paese per noi”. "Z" è la generazione venuta al mondo tra la seconda metà degli anni novanta e i primi anni duemila. Quella siriana è nata a cavallo tra le dittature sanguinarie di Hafez al-Assad, al potere fino al 2000, e del figlio Bashar che gli è succeduto. A un anno dalla caduta del regime, ciò che risuona nelle parole dei figli di quella generazione è il rinato senso di appartenenza: “Improvvisamente, abbiamo scoperto di essere cittadini”. E la speranza di una nazione da ricostruire, non senza paure e difficoltà, dopo essere sopravvissuti al trauma della guerra o alla violenza dell’esilio. Spesso a entrambi.
Siria, così è caduto il regime di Assad
“Da quando è caduto il regime non faccio che pensare a lui, a mio cugino”, dice Suad, 25 anni, fotografa. “Era membro del Fronte al-Nusra, l’antecedente di Hts (Hay’at Tahrir al-Sham, Organizzazione per la liberazione del Levante, la milizia che ha guidato l’offensiva decisiva contro le forze di Assad, ndr). Adesso è nell’esercito governativo”. Prima di riuscire ad attraversare il confine con la Turchia dove oggi risiede, Suad ha vissuto per quattro mesi nella casa del cugino paterno a Idlib, città del nord-ovest della Siria devastata dal conflitto. Qui la vita era regolata dalla shar’ia. “Per uscire dovevo indossare il niqab. Un giorno ho dimenticato i guanti e mi ha rispedita in camera a coprirmi – ricorda Suad –. Appena svoltato l’angolo, me li sono tolta. Avevo solo quindici anni”.
“Quest’estate sono andata in Siria per documentare l’uso di armi chimiche sulla popolazione civile di Idlib. Ho deciso di non coprirmi, di non portare il velo, anzi di non fare nulla per nascondermi. A Latakia (città sulla costa mediterranea, ndr), dove sono cresciuta con mia madre, è normale vestirsi così, come anche in altre parti del paese. Nella provincia di Idlib, invece no: ‘kāfirah’, infedele, così mi chiamavano. I bambini, nati lì da sfollati interni, non hanno mai visto un’estranea senza hijab. A Damasco, invece, sono rimasta sorpresa dalla vita notturna e dall’aria di apparente normalità”.
Chi è alauita come la famiglia di Assad teme rappresaglie: "Ho tanti amici che vorrebbero festeggiare, ma hanno paura"
Per chi è alauita come Suad, la voglia di celebrare la nuova Siria e la riscoperta libertà si affianca alla paura di rappresaglie e vendetta: appartenere alla stessa minoranza religiosa della famiglia Assad può essere visto come un marchio di colpevolezza. “Ho tanti amici (alauiti, ndr) che vorrebbero solo poter festeggiare la caduta del regime, ma temono per se stessi e le proprie famiglie”.
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Il 6 marzo 2025, gruppi armati fedeli al deposto regime di Assad hanno attaccato siti militari nei governatorati costieri di Latakia e Tartus. In risposta, milizie affiliate all’attuale governo hanno preso di mira e giustiziato civili della minoranza alauita: tra l’8 e il 9 marzo 2025, secondo Amnesty International, più di cento persone sono state uccise nella città costiera di Baniyas. Il 9 marzo, il presidente Ahmad al-Sharaa ha istituito una commissione d’inchiesta per indagare sugli eventi e ha formato un comitato superiore per il mantenimento della pace. A novembre 2025 è iniziato il processo per perseguire i responsabili dei crimini sulla costa del Mediterraneo.
“La cosa più importante per me è la mia sicurezza personale. E la libertà”, conclude Suad. Il timore è che chi combatteva per Hts e ora controlla il paese, come il cugino, voglia trasformare la Siria all’immagine di Idlib. Per questo Suad continua a pensare a lui. “Un nostro detto popolare recita: ‘Chi ti ha liberato, decide della tua sorte’. Io e lui siamo della stessa famiglia, stesso sangue. Siamo sopravvissuti insieme agli attacchi aerei, insieme abbiamo vissuto l'assedio e lo sfollamento. Abbiamo perso familiari e anni delle nostre vite a causa della guerra. Però la sua non è una mentalità di coesistenza, solo di dominio”.
“Quella tra Raqqa e Latakia la chiamavo la ‘strada della morte’, perché non sapevi mai cosa sarebbe potuto succedere a uno dei tanti checkpoint, chi ti avrebbe fermato e cosa avrebbe potuto farti”. Hamid è nato a Raqqa nel 1995. Nell’estate del 2015 è fuggito dalla città stretta nella morsa di Daesh. Dieci anni dopo, ha scelto di tornare: “La Siria ha più bisogno di noi”, dice.
“Restare lì, fino al 2017, significava due cose: affiliarsi allo Stato islamico o morire. Non esisteva altra possibilità – ricorda –. Anche per giocare a calcio dovevi essere dei loro, perché quelli di Daesh controllavano i campi sportivi, controllavano tutto e vedevano tutto”. Ogni famiglia di Raqqa doveva presentare un elenco con tutti gli apparecchi elettronici che possedeva e consegnarli ai miliziani islamici: niente tv, radio o altri mezzi di informazione. “Per facilitare il lavaggio del cervello – osserva Hamid –. Mia sorella ha sposato un combattente jihadista e ha avuto un figlio da lui. La propaganda non ha però attecchito nelle loro menti. Ora lei e il bambino vivono liberi nella società siriana, non in quei campi per le famiglie di Daesh”.
30mila persone accusate di legami con l'Isis, soprattutto donne e bambini, sono ancora rinchiuse in campi di prigionia: "Una bomba pronta a esplodere, il reinserimento è l'unica soluzione"
Secondo le Nazioni Unite, più di 30mila persone, soprattutto donne e bambini, sono rinchiuse in campi di prigionia nel nord-est della Siria perché accusate di legami con l’Isis, in condizioni umanitarie estreme. Tra questi, circa 8500 stranieri, inclusi foreign fighters europei e famiglie, che gli Stati di cui sono cittadini rifiutano di rimpatriare. “Rinchiuderli lì significa preservare l’ideologia dei loro padri o mariti – dice Hamid –. È una bomba pronta a esplodere. Il reinserimento è l’unica soluzione”.
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Hamid ricorda bene la quotidianità sotto Daesh: “Non ho mai temuto per la mia vita, era la mia città, sapevo come comportarmi. Forse adesso sto addolcendo i ricordi, ma ho visto di tutto: impiccagioni, lapidazioni in strada, i corpi lasciati lì da monito per gli ‘infedeli’. Una notte stavo fumando sul tetto di casa. ‘Ti ho visto, so chi sei, sei morto’, mi ha urlato uno dell’Isis, facendo il gesto del tagliagole per il mio atto di disobbedienza a Dio. In quel momento ho capito di dovermene andare. Se fossi rimasto sarei diventato come loro. Non sono un sostenitore dell’attuale governo, ma non sono nemmeno un oppositore. Gli concedo il beneficio del dubbio. Quest’anno ho percorso la Siria in lungo e in largo. Adesso non rischi più di svanire nel nulla se ti fermano per un controllo stradale”. Secondo il database del Syrian network for human rights, da marzo 2011 ad agosto 2025, almeno 177mila persone – tra cui 4.536 bambini e 8.984 donne – sono state vittime di sparizioni forzate in Siria. Nove su dieci sono scomparse per mano delle forze del regime.
“Andarcene non è stata una scelta. Tornare invece sì”, riassume Baset, 29 anni. Quando ha lasciato Aleppo nel 2016 per la Turchia, non poteva immaginare che per quasi un decennio non avrebbe più rivisto la sua città. A febbraio 2025, appena due mesi dopo la liberazione, è rientrato in patria. Oggi vive a Damasco. “Ci sono problemi enormi. Da fotografo freelance, collaboro con testate internazionali: anche solo ricevere i pagamenti è difficile, perché la Siria è esclusa dal circuito bancario internazionale. Qui si paga solo in contanti e la connessione internet è pessima. E questo è solo il primo che mi viene in mente, ma i problemi sono davvero infiniti”. Eppure, dopo l’8 dicembre 2024 non ha esitato a tornare. “Sinceramente quella notte non ho dormito. Prima per noi non esisteva un posto a cui appartenere. Siamo ancora in stato di shock”.
"Vogliamo contribuire alla ricostruzione per rendere la Siria un posto migliore, forti di ciò che abbiamo vissuto in esilio"
Come Baset, oltre un milione di siriani sono tornati in patria nell’ultimo anno secondo l’Unhcr, per lo più da Turchia e Libano. “Sapevamo che non sarebbe stato facile, ma abbiamo il dovere di contribuire alla ricostruzione. Speriamo di rendere la Siria un posto migliore, di accorciare il divario tra qui e i posti in cui abbiamo vissuto. Senza l’esperienza dell’esilio e di tutto ciò che ho sperimentato in Turchia, non sarei la persona che sono diventato. Da esule ho incontrato siriani da tutte le parti del paese, di ogni etnia e religione. Questo mi ha reso tollerante e aperto alle diversità, che è un tema oggi cruciale per il percorso di pace e giustizia transizionale nel nostro paese”.
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Tra gli ostacoli c’è anche la diffidenza e il giudizio di chi è restato: “‘Perché sei ritornato?’ è la prima domanda che mi fanno. Quelli che sono rimasti qui durante la guerra spesso non capiscono che noi non abbiamo abbandonato la nostra terra. Non abbiamo scelto noi di andarcene: era necessità di sopravvivenza. È come se avessero dimenticato com’era la Siria dieci anni fa. L’esilio è stato doloroso, ma non era una scelta, lo abbiamo subìto”. Le Nazioni Unite stimano che durante la guerra civile siriana siano state uccise più di 580mila persone e che 13 milioni di siriani siano stati sfollati con la forza.
“Adesso la storia ci sta dando ragione: ci siamo schierati dalla parte giusta della rivoluzione, quella dei valori democratici e del rispetto dell’umanità. Abbiamo vissuto così tanta brutalità, una tale mostruosità a una giovane età, ma nonostante tutto abbiamo conservato una scintilla di speranza. Quella di costruire un paese dove pace, giustizia e uguaglianza trovino spazio per tutti i siriani. Oggi è stato piantato un piccolo seme di speranza”.
“La rivoluzione sarà parte di noi, e noi saremo sempre parte di essa”, dice Yassin, 25 anni. Come il fratello Fadi, 21 anni, è originario di Afrin, nel governatorato di Aleppo. Yassin e Fadi sono siriani di etnia curda, ma oggi si sentono innanzitutto cittadini della nuova Siria, la cui identità è una e mille. “La caduta del regime ha spezzato le catene delle nostre norme identitarie – dice Fadi, che si è appena diplomato come insegnante di lingua curda e lavora in una radio di Afrin –. Oggi ci scopriamo cittadini di un’unica nazione. È importante per me difendere l’identità e la cultura curde, però mi sento prima di tutto siriano”.
Non tutti la pensano così: le Forze democratiche siriane, le milizie curde che controllano il Nord-Est del paese, continuano a coltivare il sogno di un Kurdistan indipendente, o quantomeno autonomo, e negli scorsi mesi si sono scontrate più volte con l’esercito del nuovo governo di Damasco. Una frattura che attraversa anche la famiglia di Yassin e Fadi: “Avrei voluto che alla caduta di Assad i miei parenti condividessero la mia gioia – dice il più grande –, ma per loro il regime era solo una delle tante forze che li opprime”.
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Ad alimentare la diffidenza di molti curdi verso il nuovo governo è stata anche la scelta di escludere dal calendario delle celebrazioni nazionali Newruz, la festa che segna l’inizio della primavera ed è da secoli un simbolo di resistenza per il popolo curdo, sebbene Pasqua e Natale siano stati inclusi. “Il governo transitorio sta avendo un timido impatto positivo sulla comunità curda (circa il 10 per cento della popolazione, ndr) – ammettono Yassin e Fadi –. Però ci sono forti ingerenze da parte di altri Stati e forze esterne, e Damasco non può fare molto”.
"Se il nuovo governo non dovesse rispettare i valori democratici per i quali il popolo siriano ha già lottato, scenderemo di nuovo in piazza. Siamo i figli della rivoluzione e chi governa, oggi come domani, lo sa"
Così, nella regione di Afrin sotto controllo turco e di gruppi mercenari stranieri continua la violenza: secondo la Afrin-Syria human rights organisation, nei primi 11 mesi del 2025 sono stati documentati 160 rapimenti e 60 omicidi; più di 3mila alberi sono stati abbattuti e 50 ettari di terreno sono stati bruciati. Oltre 2.500 persone, per lo più donne e bambini, risultano ancora disperse. Ma nessuno dei responsabili è stato assicurato alla giustizia. “Ci sono furti ogni giorno e la situazione della sicurezza in città è pessima: abbiamo più bisogno di riabilitazione per gli esseri umani che per le infrastrutture”, continua Yassin.
Ora, i fratelli sperano che la Siria possa lasciarsi alle spalle la frammentazione settaria e il terrore del regime, confortati da alcuni segnali positivi: “A Damasco ha riaperto l’Istituto nazionale di cinema e ci sono molte iniziative culturali e più libertà di esprimerci”, osserva Fadi. Ma la fiducia non significa sostegno incondizionato al nuovo governo: “Se non dovesse rispettare i valori democratici per i quali il popolo siriano ha già lottato, la gente scenderà di nuovo in strada a protestare: siamo i figli della rivoluzione e chi governa, oggi come domani, lo sa. Abbiamo lottato in passato e lo faremo di nuovo in futuro se necessario”.
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