13 dicembre 2024
“Non vedevo l’ora di tornare, sono contentissimo. Ho riabbracciato parenti e amici che non vedevo da otto anni”. Monzer, 35 anni, non trattiene l’emozione: mentre parla al telefono con lavialibera si trova di nuovo ad Aleppo, dove è nato e ha vissuto fino al 2017, quando la guerra l’ha costretto a fuggire ed attraversare la frontiera settentrionale del Paese. Un viaggio di due ore, attaccato sotto ad un camion per sfuggire ai controlli. Da allora vive a Gaziantep, nel sud della Turchia, con la moglie e due figli che l’hanno raggiunto mesi dopo. Se è tornato nella città natale non è per trasferirsi stabilmente, o almeno non ancora: “Starò qualche giorno per capire com’è la situazione, poi tornerò in Turchia – spiega –. Prima di tornare a vivere qui molte cose devono essere sistemate: l’acqua, l’elettricità, la linea telefonica, Internet. La mia casa poi è stata danneggiata dai bombardamenti. Ci vorranno ancora mesi”.
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Monzer è uno degli oltre 6 milioni di rifugiati siriani sparsi in tutto il mondo per cui l’improvvisa caduta del regime di Bashar al Assad ha un sapore dolceamaro: da una parte la gioia e il desiderio, per molti, di tornare a casa, dall’altra la preoccupazione per un futuro incerto e il timore che gli Stati ospitanti possano forzare i rimpatri. La Turchia, che ne ospita il maggior numero, più di tre milioni, ha annunciato l’apertura di valichi di frontiera supplementari per agevolare il passaggio delle migliaia di siriani che stanno già tornando. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan si è impegnato a favorire “rimpatri volontari e dignitosi”, ma l’esperienza degli ultimi anni, caratterizzati da un crescente sentimento xenofobo verso i siriani, solleva preoccupazioni: diverse organizzazioni non governative, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, hanno più volte denunciato la deportazione forzata di migliaia di rifugiati verso la Siria, spesso presentati come “rientri volontari”, mentre la guerra ancora infuriava.
In Europa, diversi governi, tra cui quello italiano, hanno deciso di sospendere l’esame delle richieste d’asilo di chi proviene dalla Siria. Una scelta che, ha denunciato Human Rights Watch, “porta con sé rischi concreti”. “In alcune parti del territorio sono ancora in corso combattimenti e non si può escludere la possibilità di nuove ondate di rifugiati in fuga dalle persecuzioni”, si legge nel comunicato a firma di Bill Frelick, direttore del dipartimento per i diritti di migranti e rifugiati dell’ong, che ha esortato tutti gli Stati a mantenere l’attuale regime di protezione “finché non sarà chiaro che le condizioni in Siria offriranno una certa stabilità”. Anche l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) è intervenuto, chiedendo ai governi di “garantire l’accesso al territorio, all’asilo e alla protezione per le persone che cercano sicurezza” e consentire che i richiedenti ora messi in attesa “continuino a godere degli stessi diritti di tutti gli altri, anche in termini di condizioni di accoglienza”.
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"Finché la situazione la Siria non tornerà sicura e stabile, non si può parlare di ritorno. I governi europei pensino prima a sostenere la costruzione di un sistema democratico"Abdulhkeem Alshater - Comunità siriana libera dell’Austria
C’è anche chi, come l’Austria, si è spinto oltre: lunedì, il cancelliere federale Karl Nehammer ha incaricato il ministro dell’Interno non solo di sospendere le richieste d’asilo, ma di riesaminare quelle già concesse, fermare i ricongiungimenti familiari e disporre un “programma ordinato di rimpatri e deportazioni”. Il Paese ospita la terza comunità siriana in Europa per dimensioni, con quasi 90mila rifugiati censiti dall’Unhcr nel 2023. “Finché la situazione non si calmerà e la Siria non tornerà sicura e stabile, non si può parlare di ritorno”, commenta a lavialibera Abdulhkeem Alshater, presidente dell’associazione Comunità siriana libera dell’Austria. “Dai governi europei ci aspettiamo piuttosto che sostengano la costruzione di un sistema democratico e indipendente, perché non succeda quello che è accaduto in Libia e in Iraq”.
In Germania, che ospita il maggior numero di esuli siriani in Europa, quasi 800mila tra rifugiati e richiedenti asilo, il dibattito sul ritorno si intreccia con la congiuntura segnata dalla campagna elettorale lampo in vista delle elezioni federali anticipate del prossimo 23 febbraio. Il partito di estrema destra Alternative für Deutschland, in piena ascesa, preme per il rimpatrio immediato: “Chiunque festeggia la liberazione della Siria non ha chiaramente più alcuna ragione per fuggire e dovrebbe tornare immediatamente”, ha scritto su X la leader Alice Weidel. Commenti simili sono arrivati anche da esponenti della Cdu (Unione Cristiano-Democratica, centrodestra) e da Sahra Wagenknecht, leader del partito di sinistra populista Die Linke.
"Tutti vorrebbero tornare, ma chiedono tempo per considerare con calma l'evoluzione della situazione. Forzarli sarebbe sbagliato"Veronica Zanetta Brandoni - Syrian Emergency Task Force
“Non posso non notare l’ipocrisia di governi che per anni non hanno mosso un dito per contribuire alla risoluzione del conflitto o addirittura stavano considerando di normalizzare le relazioni con il regime e che ora come prima cosa pensano a liberarsi dei rifugiati – commenta Veronica Zanetta Brandoni, direttrice del settore advocacy per l’ong Syrian Emergency Task Force –. Queste scelte mi sembrano molto premature. Ovviamente nessuno vuole essere rifugiato, tutti vogliono tornare a casa, ma chiedono il tempo di considerare con calma l’evoluzione della situazione e organizzarsi. Forzarli sarebbe sbagliato”. Senza contare il tema della ricostruzione: “Molti di coloro che sono tornati in questi giorni, compresi gli sfollati interni, hanno trovato le loro case completamente distrutte – continua Zanetta Brandoni –. È anche una questione economica: trasferirsi richiede risorse che non tutti hanno nell’immediato. Per chi ha meno disponibilità, il rientro non può che essere un progetto di lungo termine”.
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Feras, 36 anni, ci riflette da giorni, da quando si è iniziato a capire che il regime di Assad aveva le ore contate. Originario di Talbiseh, nel nord-ovest della Siria, durante la guerra ha visto cinquanta tra amici e familiari morire sotto le bombe. Dopo la fuga, ha vissuto con la moglie e le due figlie, oggi di nove e dieci anni, nel sud della Turchia, finché il clima di crescente ostilità verso i rifugiati l’hanno portato, l’anno scorso, a trasferirsi nella periferia di Parigi. “Ne abbiamo discusso tanto e credo che tutti i siriani in giro per il mondo ci stiano pensando – dice a lavialibera –. Ovviamente vogliamo tornare. Ci sono tantissimi posti e tantissime persone che voglio rivedere dopo 14 anni. Le mie due figlie sono nate in Siria, ma siamo partiti quando erano troppo piccole per averne memoria. Ora mi chiedono: ‘Quando torniamo in Siria? Quando vedremo i nonni?’. Ma non è una scelta che fai in cinque minuti. È una responsabilità enorme, soprattutto per chi ha una famiglia. Devi fermarti a pensare: ci sono le scuole per le mie figlie? C’è lavoro? La sicurezza? Dove vado ad abitare, se la mia casa è stata distrutta?”.
"Non è una scelta che fai in cinque minuti. Devi fermarti a pensare: ci sono le scuole per le mie figlie? C’è lavoro? La sicurezza? Dove vado ad abitare, se la mia casa è stata distrutta?"
Chi gode di asilo politico non può nemmeno effettuare visite di ricognizione, perché le convenzioni internazionali prevedono la perdita automatica dello status di rifugiato in caso di rientro nel paese da cui si è in fuga. Per questo, l’Unhcr ha esortato gli Stati a “concedere la flessibilità necessaria per valutare le condizioni al momento del ritorno, ad esempio attraverso visite di verifica” perché i rifugiati “siano in grado di prendere decisioni informate e senza alcuna pressione”. “Ho deciso che aspetterò ancora almeno per un anno – continua Feras –. Devo essere certo che la mia famiglia sia al sicuro, visto che sarebbe un ritorno definitivo”.
Anche la Francia sta considerando di sospendere l’esame delle domande d’asilo di chi arriva dalla Siria. In tutto il territorio dell’Unione europea sono 100mila i profughi che attendono l’esito e che potrebbero quindi vedere congelata la loro richiesta, magari dopo mesi di attesa. Intanto, la nuova Commissione cerca di trovare una posizione comune. Martedì, la neo-nominata alta rappresentante per la politica estera Kaja Kallas ha dichiarato che “l’Europa non vuole vedere nuove ondate di rifugiati dalla Siria” e che “lavorerà per favorire la stabilizzazione del Paese in modo da consentire i rimpatri”.
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