15 ottobre 2020
Quello di beni comuni è un concetto che può trarre in inganno. All’apparenza, si mostra semplice, intuitivo, quasi banale. Se si scava, però, se ne scopre tutta la complessità e la difficoltà di arrivare a una definizione chiara, condivisa e concreta. Allo stesso tempo, comprenderne la portata e dargli una dimensione reale è una sfida di fondamentale importanza per il futuro, sia in campo economico, che sociale, che ambientale. È un argomento che si intreccia con questioni ambientali, diritti sociali, elaborazioni sui concetti di democrazia e cittadinanza.
Non è un caso che, negli anni, il tema dei beni comuni e del loro riconoscimento abbia impegnato menti brillanti in tutto il mondo: dal premio Nobel Elinor Ostrom al giurista italiano Stefano Rodotà, tanto per citarne due di particolare rilievo.
In ogni discussione sui beni comuni le domande che tornano insistenti sono sempre le stesse. Quali sono? Cosa li definisce? Anni di dibattito sul tema, pur in assenza di una posizione finale condivisa, hanno permesso di fissare qualche punto fermo. Per identificarli, si può prendere come base la definizione offerta dalla Commissione Rodotà.
(Beni comuni sono) le cose che esprimono utilità? funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissate dalla legge
Il primo punto che emerge è la strumentalità. Per riconoscere un bene comune bisogna guardare all’obiettivo che consente di raggiungere: il godimento di un diritto fondamentale e la possibilità di sviluppo dell’individuo. Al centro, quindi, c’è la persona. Ecco perché il tema dei ben comuni e soprattutto del loro sfruttamento assume tanta importanza. Utilizzare un bene comune, magari consumarlo riducendone la disponibilità, oppure sfruttarlo a fini di profitto, significa sottrarlo a ciascun individuo che fa parte della comunità, impedendogli, alla fine, di godere pienamente di un suo diritto.
Il legame con i diritti fondamentali spiega anche tutto il dibattito che c’è dietro al tema della gestione e della proprietà dei beni comuni, vero nodo critico. Questa categoria di beni, infatti, impone il superamento della classica contrapposizione tra privato e pubblico, tra individualismo e statalismo. Il bene comune appartiene alla collettività ed è da questa che deve essere gestito, in modo libero e senza profitto.
Se una gestione collettiva è impensabile, per le complessità tipiche delle società moderne, allora quantomeno si devono immaginare modelli partecipati di amministrazione. Anche perché, come è esplicitato dalla definizione stessa, bisogna tenere in considerazione anche gli interessi delle generazioni future, che ancora non possono esprimersi ma che sono pienamente co-titolari di quei beni.
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Certo, la definizione scelta dalla Commissione Rodotà non aiuta chi si aspetta un elenco puntuale ed esaustivo dei beni comuni. Semplicemente perché questo non esiste e non può esistere. Vista la formulazione “aperta”, cioè costruita intorno al concetto di diritto della persona, la “lista” è destinata ad allungarsi (e magari anche a restringersi) con l’evolversi delle società, delle elaborazioni giuridiche ma anche delle tecnologie. Tra i beni comuni ne possiamo trovare alcuni assolutamente fisici e materiali (come l’acqua), affiancati da altri di tipo immateriale (come l’istruzione o la salute).
Secondo alcuni studiosi, però, questa elasticità può trasformarsi da punto di forza a punto di debolezza. Negli anni, infatti, si è cercato di ricondurre sotto l’ombrello di bene comune una gamma sempre più ampia di concetti, con uno sforzo di astrazione sempre più marcato. Il rischio è che si finisca per svuotare di forza e significato questa nozione. Se tutto è un bene comune, niente è davvero un bene comune.
Nel 2009, la Banca di Svezia annunciò l’attribuzione del Premio Nobel per l’economia (come viene impropriamente chiamato) a due studiosi statunitensi: Elinor Ostrom e Oliver Williamson. La scelta della Ostrom è stata particolarmente significativa, non solo perché prima donna a ricevere il riconoscimento. La politologa americana, infatti, ha legato il suo nome a doppio filo proprio al tema della gestione collettiva dei beni comuni (commons). Fino alla sua morte, avvenuta nel 2012, ha concentrato i suoi studi sulla dimostrazione che una terza via, tra mercato e Stato, è possibile ed è anche efficiente e sostenibile.
Secondo la Ostrom, le comunità sono in grado di prendersi carico della gestione dei beni collettivi, senza dover per forza demandare questo compito a un “Leviatano burocratico” e senza neanche dover abbandonare tutto al profitto individuale. Purché sussistano alcune condizioni:
tra i membri della comunità ci siano conoscenza, fiducia e comunicazione reciproche;
esista un sistema di regole consolidato sul territorio;
non ci sia interferenza di autorità esterne.
Le teorie della Ostrom, soprattutto quando lei iniziò a lavorarci (tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70), avevano una portata rivoluzionaria. Si contrapponevano in maniera netta al pensiero allora dominante, che negava qualsiasi possibile soluzione che non fosse riconducibile allo schema “privatizzazione o gestione pubblica” (con una progressiva propensione per la prima scelta).
Un approccio cristallizzato da Garrett Hardin nella cosiddetta “Tragedia dei beni comuni” (Tragedy of the commons), che altro non sarebbe che una tragedia ambientale. Secondo Hardin, se una collettività autogestisce una risorsa naturale in comune, l’esito non può che essere quello del sovrasfruttameto e quindi del totale consumo. L’esempio classico è quello del prato su cui alcuni contadini portano liberamente a pascolare il loro bestiame. Se un pastore decide di aumentare il bestiame, causerà un maggiore e più rapido sfruttamento del campo che andrà a discapito di tutti gli altri allevatori (e solo in piccola parte anche a suo sfavore). La prospettiva di avere un vantaggio rispetto agli altri lo porterebbe a non curarsi delle conseguenze negative sul lungo periodo.
Secondo la Ostrom, però, ciò che l’approccio di Hardin non coglie, è che gestione collettiva non è sinonimo di libero accesso. Rimanendo nell’esempio: se quel prato fosse un bene comune in gestione collettiva, i pastori non avrebbero libero accesso ma sarebbero sottoposti a regole da loro stessi stabilite e controllate.
In Italia, il dibattito sui beni comuni e sul loro riconoscimento giuridico si è accesso negli ultimi 20 anni, grazie soprattutto al contributo di studiosi del calibro del già citato Stefano Rodotà e di Ugo Mattei (autore di un manifesto sui beni comuni). Un percorso lungo e accidentato, che ancora non è approdato a un riconoscimento formale di questa categoria di beni, ma che ha comunque portato frutti interessanti e che si è intrecciato con importanti battaglie referendarie (come quella sull’acqua pubblica).
La commissione Rodotà è nata nel giugno del 2007, nominata dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, su iniziativa del governo Prodi. Guidata da Stefano Rodotà (presidente) e da Ugo Mattei (vicepresidente), la commissione era composta da 12 membri, chiamati a elaborare una riforma della disciplina dei beni pubblici contenuta nel Codice civile (mai toccata dal 1942). La relazione finale fu consegnata meno di un anno dopo, ma non approdò mai nelle aule parlamentari, a causa della caduta del governo.
L’elemento più innovativo della proposta formulata dalla Commissione riguardava proprio l’introduzione nell’ordinamento italiano della categoria dei beni comuni, ancora inesistente. Dei beni che, come detto, servono a realizzare il godimento di diritti fondamentali della persona. Secondo l’impostazione seguita dalla Commissione, nell’elenco rientravano: le risorse naturali (dall’aria all’acqua, dai ghiacciai alle foreste) e i beni archeologici, culturali e ambientali.
Il lavoro di Rodotà e dei suoi colleghi, pur sfociando mai in una legge, rappresenta ancora oggi un terreno fertile che continua ad alimentare il dibattito sui beni comuni e anche a guidare l’evoluzione della giurisprudenza in materia. Ne è un esempio la sentenza n.3665 della Corte di Cassazione, emessa nel 2011.
In quell’occasione, la Corte, utilizzando la definizione di bene comune elaborata dalla Commissione, ha qualificato così le valli da pesca della laguna di Venezia. Questo gli ha permesso di affermare che, in presenza di un bene immobile con caratteristiche che lo rendano “destinato alla realizzazione dello Stato sociale” questo va considerato come “comune, vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”.
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Il dibattito pubblico sul tema dei beni comuni conobbe un’ampia popolarità durante la campagna elettorale referendaria del 2011. Dei quattro quesiti sui quali si andava al voto (servizi pubblici locali, tariffe dell’acqua, energia nucleare e legittimo impedimento), due si inserivano proprio nel dibattito aperto dalla Commissione Rodotà. Non a caso, molti componenti di quell’esperienza, tra cui lo stesso Presidente, si impegnarono attivamente sul fronte del “sì” all’abrogazione delle norme oggetto della consultazione. L’obiettivo elettorale fu raggiunto: gli italiani si espressero contro le ipotesi di privatizzazione dei servizi pubblici e, in particolare, di quello idrico (nei due quesiti, i sì superarono il 95%). Fu un momento di estrema popolarità ed energia per i movimenti che lottano per i beni comuni.
Otto anni dopo quella vittoria referendaria, però, la spinta pare affievolita. Il tema dei beni comuni è uscito dall’agenda politica, il dibattito c’è ma fatica ad imporsi sui media. I movimenti che lo promuovono attraversano una fase di stanchezza. Sembra dimostrarlo anche il mancato raggiungimento delle firme necessarie per presentare una legge di iniziativa popolare sul riconoscimento dei beni comuni. Riaccendere la questione, però, è necessario. Tra l’altro, la stessa pandemia da coronavirusha sollecitato in profondità la tenuta degli schemi politici ed economici tradizionali, interrogando tutti sulla necessità di rimodellarli. In tempi di smart working e didattica a distanza, ad esempio, non sta diventando urgente tematizzare l’accesso alla rete internet come bene comune?
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