Aggiornato il giorno 23 novembre 2023
I beni confiscati sono palestre di vita, ha detto Papa Francesco ai componenti della Commissione antimafia nel 2017. In Italia la prima norma che ha previsto la confisca dei beni come strumento fondamentale contro il potere mafioso è stata la Rognoni-La Torre, del 1982. Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto nel 1996, quando — grazie all'impegno di Libera iniziato nel 1995 — venne approvata una legge (legge 109/96) che ha introdotto il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Possiamo considerarli beni comuni: spazi non solo fisici attraverso cui la comunità sperimenta i valori dell'inclusione e della giustizia sociale, creando nuove opportunità lavorative e di sviluppo economico.
I beni confiscati sono uno degli strumenti più efficaci per colpire le mafie, attaccandole nei loro patrimoni e nelle relazioni di forza con le quali ingabbiano i contesti territoriali. Riprendendo la definizione contenuta nel nostro Codice di procedura penale, all'articolo 416 bis, sono tutte "le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e (delle cose) che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego".
Esistono tre diverse categorie di beni confiscati, ognuna delle quali ha delle peculiarità normative e di reimpiego:
All'inizio degli anni Ottanta Pio La Torre (prima sindacalista Cgil e poi deputato Pci, ndr) presentò un disegno di legge per l'introduzione del reato di associazione mafiosa nel nostro Codice penale. Ma solo il 13 settembre 1982, dopo l'uccisione proprio di La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo, e dopo l'assassinio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'autista Domenico Russo, il Parlamento approverà quella che oggi ricordiamo come legge Rognoni-La Torre. Si tratta della prima norma in Italia che introduce il reato di associazione criminale di stampo mafioso, ma soprattutto viene qui prevista la confisca dei beni come strumento fondamentale contro il potere mafioso.
La legge Rognoni-La Torre si basa sull'idea che la repressione militare delle organizzazioni criminali non sia sufficiente a comprimerne la pericolosità, soprattutto in presenza di ingenti riserve di capitale
L'intuizione alla base è legata al cambiamento di direzione nel contrasto al fenomeno mafioso: l'idea che la repressione militare delle organizzazioni criminali non sarebbe stata sufficiente a comprimerne la pericolosità, soprattutto in presenza di ingenti riserve di capitale. E, allora, nella legge numero 646 del 1982 campeggia per la prima volta la confisca dei beni dei quali non risulti la legittima provenienza, rinvenuti nella proprietà diretta o indiretta del prevenuto. Negli anni il legislatore ha apportato delle modifiche migliorative all'intero iter di sequestro e confisca, a partire dall'istituzione della figura dell'amministratore giudiziario per i beni e le aziende, fino alla cosiddetta “confisca allargata” (decreto legge numero 306 del '92) che pone in risalto la sproporzione tra il reddito dichiarato e i beni di cui si risulta proprietari, anche attraverso prestanome.
L'antimafia nel nome di Pio La Torre
Bisognerà aspettare una nuova ondata emotiva per compiere un altro passo in avanti: le uccisioni di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992), che anticipano le stragi di Firenze e Milano del 1993, e gli attentati a Roma contro le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano. Nacque proprio in quelli anni il network associativo di Libera e la prima iniziativa di rilievo nazionale fu una raccolta firme per una petizione popolare a favore di una legge che introducesse il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e ai corrotti. La legge del 7 marzo 1996 (legge 109/96), proposta da Giuseppe Di Lello (ex magistrato del pool antimafia e in quel momento deputato), venne approvata in sede deliberante dalla Commissione Giustizia, ma furono numerose le differenze con la norma promossa dal mondo dell'associazionismo: prima fra tutte, l'eliminazione della parte dedicata all'uso sociale dei beni confiscati ai corrotti (per la cui introduzione bisognerà aspettare il 2017, ndr).
A questa rivoluzione copernicana sono seguiti diversi passi in avanti, tra i quali ricordiamo l'istituzione di un Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati dal 2000 al 2008 (con un'interruzione tra 2003 e 2007) e nel 2010 la nascita dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, luogo che si è proposto come convergente per i diversi attori pubblici coinvolti nell'iter di sequestro e confisca.
Nel 2011, con il decreto legislativo numero 159, è stato istituito il cosiddetto “Codice antimafia”, primo tentativo di armonizzare tutta la normativa esistente su questi temi, e introdurre alcune piccole modifiche. Nel 2017, dopo due anni di travagliato iter parlamentare, è stata promulgata la legge numero 161 del 2017, che introduce una serie di importanti novità nella normativa antimafia, con particolare riguardo al tema dei beni confiscati.
Con questa legge, già all'articolo uno, viene ampliata la possibilità di sequestrare i beni ai corrotti e agli evasori. Viene introdotta la possibilità di effettuare un affiancamento dell'impresa a rischio di infiltrazioni mafiose: il controllo giudiziario diviene una misura che punta a garantire, per quanto possibile, la continuità del lavoro. Sempre nel campo delle misure rivolte alle aziende sequestrate, le prefetture possono convocare dei tavoli ad hoc, con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative, proprio per preservare il tessuto economico di un territorio.
Viene modificata in parte l'organizzazione dell'Agenzia nazionale e vengono individuate delle regole più stringenti per gli amministratori giudiziari, soprattutto nella fase di assegnazione degli incarichi. La legge, inoltre, prevede che alcuni beni confiscati, in ragione delle loro caratteristiche fisiche o per ragioni particolarmente simboliche, possano essere assegnati temporaneamente anche in fase di sequestro, direttamente dal Tribunale delle misure di prevenzione. Si stabilisce che misure di prevenzione patrimoniale possono essere attivate anche dalla Procura nazionale antimafia e si prevede che la competenza su tali misure sia dei tribunali dei distretti della corte d'appello.
Con la svendita dei beni confiscati prevista nei decreti sicurezza si favoriscono i clan, che potrebbero riacquistare i beni tramite prestanomi e riciclare i patrimoni e le ricchezze accumulate illecitamente
L'ultima modifica in ordine di tempo è arrivata nel novembre 2018, con il cosiddetto Decreto sicurezza. Per la prima volta in Italia è stata introdotta la vendita dei beni immobili confiscati ai privati: una modifica sostanziale rispetto ai principi del loro riutilizzo per finalità pubbliche e sociali prevista dalla legge 109, di cui Libera chiede una revoca. Svendendo i beni confiscati si favoriscono i clan, che potrebbero riacquistare i beni tramite prestanomi e riciclare i patrimoni e le ricchezze accumulate illecitamente.
Inoltre, la vendita alle condizioni contenute nel decreto governativo porterà il rischio ad arrendersi di fronte alle prime difficoltà legate alle diverse criticità territoriali. Del resto, la vendita era già possibile ad alcune categorie di soggetti come extrema ratio. Come tale deve essere considerata e non una scorciatoia per evitare i problemi che si riscontrano nella destinazione e assegnazione dei beni.
La confisca definitiva è solo l’ultimo atto del procedimento di prevenzione attraverso cui beni accumulati illecitamente dai mafiosi vengono loro sottratti e diventano patrimonio dello Stato. Quando parliamo di misure di prevenzione, non è necessario che sia stata provata la commissione di un reato (come invece accade nel caso della confisca penale, che segue la condanna alla fine di un processo penale).
Il percorso della confisca di prevenzione comincia con una serie di approfondite indagini patrimoniali disposte nei confronti di soggetti indiziati di appartenere ad organizzazioni mafiose. All’esito di queste indagini e facendo leva sul principio della sproporzione tra il reddito dichiarato e il reale tenore di vita del proposto (si chiama così il soggetto nei cui confronti si procede con le misure di prevenzione), il giudice emette, senza alcun contraddittorio, il provvedimento di sequestro dei beni, che di fatto congela il patrimonio oggetto della misura di prevenzione. Sulla carta quindi i beni sequestrati non sono più nella disponibilità del mafioso, ma non sono neanche trasferiti al patrimonio dello Stato. Si possono tuttavia verificare anche casi nei quali, in ragione del particolare valore simbolico di un bene e per preservarlo con maggiore efficacia, sin dalla fase di sequestro, venga disposto l’affidamento in gestione per finalità sociali.
Al sequestro segue la fase di contraddittorio, quella in cui il proposto proverà a dimostrare la legittima provenienza di tutti i suoi beni. Se ciò non accade, il provvedimento successivo è quello della confisca di primo grado, anch’essa una misura di carattere temporaneo, cui si può ricorrere in appello. Questa fase può concludersi o con la restituzione dei beni al proposto o con l’emissione del provvedimento di confisca di secondo grado, cui può seguire il ricorso in Cassazione. Solo alla pronuncia del giudice di secondo grado, e dunque subito dopo la cosiddetta confisca di secondo grado, i beni confiscati passano sotto la gestione dell’Agenzia nazionale, che li amministra fino all’emissione del provvedimento di destinazione. L’Agenzia può avvalersi, in questa fase, di un coadiutore che solitamente corrisponde all’amministratore giudiziario già nominato dal tribunale. La confisca definitiva dunque interviene o a seguito della pronuncia della Cassazione o decorsi i termini stabiliti per le impugnazioni. Finalmente, così, i beni vengono tolti dalle mani dei mafiosi e devoluti al patrimonio dello Stato.
Una volta trasferito al patrimonio pubblico, dello Stato o delle amministrazioni locali, la legge individua due percorsi di riutilizzo di un bene definitivamente confiscato alle mafie: quello istituzionale e quello sociale. Il riutilizzo per finalità istituzionali è garantito direttamente dall’Agenzia nazionale che, in collegamento con le altre Amministrazioni dello Stato, può disporre l’utilizzo dei beni confiscati per “finalità di giustizia, di ordine pubblico, di protezione civile”. Il riutilizzo per finalità sociali è invece solitamente determinato dagli Enti locali che, tramite bandi pubblici, assegnano i beni a una serie di soggetti sociali, come associazioni, cooperative, gruppi e comunità. Questi soggetti sono chiamati a realizzare progetti che abbiano finalità sociali come case famiglia, centri di accoglienza, o esperienze di economia sociale dirette a promuovere la dignità del lavoro e dei lavoratori. I Comuni possono anche decidere di utilizzare in proprio i beni, come sedi di uffici pubblici, di scuole e di altri servizi utili ai cittadini.
Come si può ottenere l'assegnazione dei beni confiscati
Grazie all'impegno delle reti internazionali di Libera, anche altri Paesi dell'Unione Europea e dell'America Latina hanno deciso di introdurre nella loro legislazione l'istituto della confisca e del riutilizzo sociale. In particolare, in Europa esiste la direttiva 42 del 2014, che all'articolo 10.3 invita gli Stati membri ad adottare misure che permettano di riutilizzare i beni per scopi pubblici e sociali. Ad oggi, tutti i Paesi dell'Unione Europa hanno recepito la direttiva, ma solo diciannove hanno inserito un passaggio legislativo sulla possibilità di riutilizzo pubblico e sociale di beni confiscati.
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Grazie all'impegno della rete europea Chance (Civil hub against organized crime in Europe) è stato avviato un lavoro di mappatura delle pratiche già esistenti, registrando una presenza di beni riutilizzati in Spagna, Olanda, Francia, Albania; c'è ancora tanta strada da fare, come chiediamo nell'agenda politica europea che abbiamo presentato lo scorso 3 aprile 2019 al Parlamento europeo.
Allo stesso tempo, Alas (America Latina alternativa social), la rete promossa da Libera in 12 paesi del Centro e Sud America, ha attivato un lavoro di analisi comparativa sullo stato dell’arte delle leggi e le pratiche messe in atto sul tema della confisca e sulle proposte di utilizzo sociale. Nella ricerca, realizzata in Guatemala, Bolivia, Argentina, Messico e Colombia, sono state le stesse organizzazioni partner Alas a dare un contributo prezioso in quanto ad approfondimenti e raccomandazioni. Attualmente la società civile di vari paesi latinoamericani guarda con interesse alla disciplina dell'uso sociale e alla buona pratica italiana. Fra questi i più attivi sono Argentina e Colombia, in particolare laddove questo modello può tramutarsi in misure di risarcimento per le vittime delle violenze criminali.
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La rivoluzione nella lotta alla criminalità organizzata è partita da Città del Messico. La capitale, nel 2017, è diventata a tutti gli effetti uno dei 32 Stati che compongono la Repubblica messicana. Come tale, si è dotata di una propria Costituzione, la prima in Messico e tutta l’America Latina a sancire il principio della restituzione alla comunità dei beni sottratti alle mafie. Il riutilizzo sociale, appunto. Non si tratta di una questione di poco conto per una delle nazioni al centro del narcotraffico mondiale.
In questi primi venticinque anni di attività per Libera il tema del riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati è sempre stato centrale nella scelta degli obiettivi politici associativi. Lo ribadiamo ogni 7 marzo quando, in occasione dell'anniversario della legge 109, pubblichiamo i dati della nostra mappatura sui soggetti del terzo settore che gestiscono beni confiscati. Più di 850 realtà sociali (dati aggiornati a marzo 2020, ndr) che hanno deciso di impegnarsi nella costruzione di modelli alternativi di sviluppo, portatori di istanze di coesione e inclusione sociale.
Dal 2016 siamo impegnati nella progettazione del portale confiscatibene.it, insieme all'associazione OnData: si tratta del primo portale in Italia che mette insieme i dati ufficiali sui beni confiscati a strumenti di monitoraggio civico, a servizio delle nostre comunità. Attraverso le diverse sezioni del sito è possibile scaricare un glossario completo su questi temi, formulare una domanda di accesso civico per i Comuni e le amministrazioni locali, ma soprattutto leggere le storie di chi gestisce e si impegna sui beni confiscati.
Libera, inoltre, come soggetto rappresentativo del mondo delle associazioni, ha partecipato alle consultazioni per la scrittura della Strategia nazionale per la valorizzazione dei beni confiscati attraverso le Politiche di coesione. I beni sequestrati e confiscati rappresentano un importante strumento per lo sviluppo territoriale e per questo motivo già la Legge di bilancio del 2017 ha previsto l’adozione del documento e ha stanziato 5 milioni di euro in due anni (insieme ad altre risorse attivate dai programmi dell’Unione europea per la programmazione 2014-2020). L'obiettivo è stato quello di definire una strategia nazionale per la pianificazione degli interventi, il monitoraggio e la verifica dei risultati. Il documento è stato poi approvato dal Cipe ed è diventato operativo dal marzo 2019.
Anche l'Agenzia nazionale, grazie ai miglioramenti introdotti in questi anni, ha compiuto un'apertura notevole nei confronti del terzo settore: le linee guida pubblicate nell'ottobre del 2019, ne sono un esempio lampante. Tra i diversi punti trattati, ne citiamo solo qualcuno, che può offrire nuove possibilità per i territori:
Ci sono nuove sfide all'orizzonte per la società civile: in un momento così delicato come quello che stiamo vivendo legato legato alla pandemia da coronavirus, ancora di più i beni confiscati devono diventare beni comuni: contribuire attivamente allo sviluppo della persona e alla definizione di un modello di sviluppo che sia da sostegno ai territori più deboli.
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