7 aprile 2021, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro in visita a un centro anti-Covid a Chapeco (Flickr)
7 aprile 2021, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro in visita a un centro anti-Covid a Chapeco (Flickr)

Covid in Sudamerica: il Brasile precipita, Perù ed Ecuador cercano nuove guide

Prima di Jair Bolsonaro era un modello di sviluppo, ora è esempio di declino con 375mila morti e picchi di 4mila vittime al giorno. Fine del "correismo" a Quito, dove vince il neoliberista Lasso. A Lima la figlia di Fujimori finisce al ballottaggio

Giulia Poscetti

Giulia PoscettiReferente del settore internazionale di Libera - area America Latina

21 aprile 2021

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Da mesi in America Latina ogni giorno sembra peggiore di quello precedente. Questa percezione diffusa e reale non riguarda solo la curva epidemiologica legata alla pandemia che non si arresta, a causa di politiche scellerate e di governi che si mostrano in tutta la loro inadeguatezza di fronte all’emergenza, ma ha anche a che vedere con le crisi politiche e le tendenze populiste ed autoritarie che stanno attraversando molti paesi dell’area. Questi fatti destano un’enorme preoccupazione non solo per chi li vive sulla propria pelle, ma per l’intera comunità internazionale, che ora più che mai è conscia del rapporto di interdipendenza vissuto tra paesi apparentemente distanti tra loro.

Come riportato sulle pagine del New York Times “è probabile che in America Latina la nuova normalità prodotta dalla pandemia sarà una versione peggiore della cruda normalità vissuta pre-covid. Che la crisi indebolirà ulteriormente Stati già fragili, che ci saranno ancora più poveri e un divario ancora più profondo tra loro ed i ricchi, che la paura dell'incertezza genererà più repressione”. La profezia già si sta avverando ed assistiamo nostro malgrado al costante declino di un continente, che pur avendo subito nei secoli soprusi di ogni tipo, a partire da quelli coloniali, ha sempre saputo resistere e reagire.

In America Latina, durante la pandemia restare a casa è un privilegio per pochi

Brasile. La catastrofe umanitaria

“Un paese che rimuove dal suo incarico una presidente del governo per irregolarità fiscali e non è in grado di rimuovere un presidente responsabile di migliaia e migliaia di morti, per mancanza di misure sanitarie, non è una democrazia"Boaventura de Sousa Santos

“La crisi più devastante della storia del paese” racconta Dario de Sousa e Silva Filho dell’Università Statale di Rio de Janeiro. "Lo scorso marzo è stato il mese più triste della nostra vita”, commenta amareggiato Alfredo Dorea, fondatore della Instituição Beneficente Conceição Macedo (Ibcm). E pensare che il Brasile poco tempo prima dell’era funesta di Bolsonaro, pur con tutte le sue contraddizioni, sembrava potesse diventare un modello di sviluppo e rinascita (in particolare in termini di investimenti pubblici in sanità, ricerca e istruzione) per l’intera regione centro e sud americana. Ora è l’esatto opposto, la rappresentazione più esasperata del declino che stanno vivendo i paesi latinoamericani in tempo di pandemia.

Fa il giro del mondo la notizia dei più di 375mila morti per covid, con picchi di più di quattromila vittime al giorno. L’assenza di un piano vaccinale e dell’adozione delle le misure preventive di base fanno parte dell’agenda genocida del governo Bolsonaro che attua una politica di abbandono verso la sua gente. “È necessario leggere il corso politico attuale risalendo alla destituzione del 2016 dell’ex presidenta Dilma Rousseff per trovare un senso al caos in atto, a partire dall’attacco sistematico di Bolsonaro alla democrazia e ai diritti umani – spiega de Sousa e Silva Filho –. Il tasso di disoccupazione era già all’11 per cento pre-covid in Brasile, già era in corso una feroce militarizzazione, la deforestazione dell’Amazzonia e la retorica del nemico interno utilizzata contro gli/le attivisti/e, le popolazioni indigene e quelle povere”.

Su questo aspetto insiste in un recente articolo anche l’intellettuale Boaventura de Sousa Santos: “Un paese che rimuove dal suo incarico una presidente del governo per irregolarità fiscali e non è in grado di rimuovere un presidente responsabile di migliaia e migliaia di morti, per mancanza di misure sanitarie, non è una democrazia. Un paese il cui presidente, democraticamente eletto, commemora il periodo della dittatura, elogia la tortura e resta al potere, nonostante abbia messo in vendita l'Amazzonia e sia incriminato dai tribunali internazionali di crimini contro l'umanità, non è una democrazia”.

De Sousa Santos: "La pandemia ci insegna che lo Stato deve essere reinventato"

Da negazionista Bolsonaro ha incentivato per la cura del Covid l’acquisto di medicinali usati per la malaria e i pidocchi, “è il caso più evidente di necropolitica a larga scala: uccidere e lasciar morire come standard di normalità, come prezzo ragionevole da pagare per non fermare un’economia che lui stesso ha indebolito”, sostiene fermamente de Sousa e Silva Filho. La mancanza di ossigeno e di sedativi per le terapie intensive, l’aumento esponenziale di contagi e vittime ormai anche tra la popolazione più giovane, così come tra bambine/i e adolescenti – segno che il virus si sta diffondendo con più irruenza – ha portato negli ultimi giorni la Corte suprema brasiliana, a ordinare di istituire una commissione d’inchiesta che indagasse sulla gestione del governo, provando a porre un freno all’autoritarismo del potere esecutivo. Di tutta risposta Bolsonaro ha minacciato di intervenire con “il suo esercito” come se fosse una milizia personale. “Queste politiche genocide non sono solo una tragedia per il Brasile, ma un rischio per il mondo intero”, fa presente Alfredo Dorea, da sempre a fianco agli ultimi, alle professioniste del sesso, alla gente povera che vive per strada, ai bimbi malati di Aids. Parallelamente alla crisi sanitaria vi è quella politica, Bolsonaro è sempre più isolato, ha perso un ministro dopo l’altro, tra cui quattro ministri della Salute, quello degli Esteri, Ernesto Araujo, e quello della Difesa, Fernando de Azevedo e Silva, un tempo suoi fedelissimi.

Lo scorso 30 marzo il capo di Stato ha anche tentato di ampliare i suoi poteri attivando il dispositivo di emergenza “Mobilitazione nazionale”, un meccanismo previsto dalla Costituzione brasiliana in caso di attacco straniero, ma che in questo caso sarebbe stato giustificato dalla crisi sanitaria. Di fatto tale soluzione, bloccata alla Camera, avrebbe rafforzato il potere del presidente nei diversi settori pubblici e privati. I deputati che si sono opposti, anche interni al governo, hanno accusato il premier di aver tentato in questo modo un colpo di Stato. Ad appoggiarlo resta un nocciolo duro, quello più autoritario e neoliberista, composto da grandi proprietari terrieri, da esponenti religiosi delle chiese pentecostali, dall’élite finanziaria e quella militare più reazionaria.

Nel frattempo le elezioni saranno nel 2022 e l’ex presidente Lula a cui è stato impedito di partecipare nel 2018 potrà farlo alle prossime, avendo visto definitivamente cadere i capi d’accusa nei suoi confronti, per decisione della Corte suprema. A tale riguardo Bolsonaro ha commentato con una nuova frase choc: "Un popolo che vota per un soggetto del genere è un popolo che merita di soffrire".

Nelle favelas col Covid le vite sembrano contare ancora meno

Tra instabilità e pandemia. Perù ed Ecuador alle urne

Il neopresidente dell'Ecuador, Guillermo Lasso (Flickr)
Il neopresidente dell'Ecuador, Guillermo Lasso (Flickr)

Il Brasile rappresenta d’altronde la punta dell’iceberg di una tendenza che nelle sue diverse declinazioni si sta diffondendo in tutti paesi latinoamericani: instabilità politica che si aggiunge alla crisi sanitaria ed economica. A tale proposito, la giornata di domenica 11 aprile è stata definita “Super Domingo” (“Super Domenica”). In piena emergenza Covid in Ecuador e Perù si è andati alle urne per decidere il nuovo presidente del governo.

Al ballottaggio delle elezioni presidenziali ecuadoriane ha vinto a sorpresa Guillermo Lasso, padrone della seconda banca più grande dell’Ecuador. Ultra neoliberista e membro dell'Opus Dei, Lasso ha già annunciato che porterà avanti politiche basate sul libero mercato e sugli investimenti stranieri, mettendosi subito contro la base popolare ed i movimenti indigeni che da tempo lottano contro le politiche di austerity e lo sfruttamento dei propri territori da parte delle imprese straniere. Questa vittoria ha segnato la fine di un’epoca, importante e significativa per il paese, quella del “correísmo”, ossia il modello politico di impronta socialista promosso da Rafael Correa, che è stato alla guida del paese dal 2007 al 2017. Il candidato sconfitto per cinque punti percentuali è infatti Andrés Arauz, un economista di 36 anni sostenuto dallo stesso Correa.

Anche il Perù sta attraversando un periodo di grande transizione politica, se non di vero e proprio caos istituzionale dovuto ai diversi tentativi di “golpe” subiti dagli ultimi governi. Lo scorso novembre, solo dopo due mesi dal primo tentativo, il Congresso, composto da 68 parlamentari su 130 sotto inchiesta giudiziaria, ha fatto destituire il presidente in carica Martín Vizcarra. Due anni prima era avvenuto lo stesso al suo antecedente. Le mobilitazioni immediate in tutto il paese, al grido di “Perù te quiero, por eso te defiendo”, sono riuscite a far cadere il governo di transizione insediatosi, presieduto da Manuel Merino. Questo avveniva a cinque mesi dalle elezioni presidenziali, mentre si susseguivano scandali come quello del “vacunagate”, ossia l’acquisto illecito di vaccini da parte di esponenti del mondo imprenditoriale e politico, ancor prima che fosse avviata la campagna vaccinale. Non è un caso che secondo un’inchiesta di Ipsos Perú per il 61% dei peruviani il problema principale del paese è proprio la corruzione, ancora scossi dal caso Odebrecht, che ha portato all’arresto di ben 4 presidenti ed al suicidio del più noto di loro, Alan Garcia.

In Centroamerica non si fermano i massacri dei migranti: "Non smetteremo di denunciare"

Keiko Fujimori, figlia dell'ex presidente Alberto, è al ballottaggio delle presidenziali (Flickr)
Keiko Fujimori, figlia dell'ex presidente Alberto, è al ballottaggio delle presidenziali (Flickr)

Si è arrivati quindi alle elezioni di aprile 2021 con 18 candidati semi sconosciuti, a riprova di un sistema politico frammentato e fragile. “Bisogna collegare questo processo elettorale con la crisi politica in atto e con la sfiducia di gran parte della popolazione nei confronti della classe politica – riporta Javier Malpartida, fondatore dell’Instituciòn educativa ecológica Tarpurisunchis –. Mai come questa volta in Perù si è riscontrato un numero tanto alto di astensioni, spiegabile in primo luogo dalla distanza enorme che si è creata con l’elettorato, con la base”.

L’11 aprile, sono passati al primo turno, per andare al ballottaggio previsto il prossimo 6 giugno, il maestro rurale Pedro Castillo (Perù Libre) e Keiko Fujimori (Fuerza Popular), figlia dell’ex presidente Alberto. Fujimori padre sta scontando una condanna per i massacri a La Cantuta y Barrios Altos, per crimini di lesa umanità, corruzione, rapimento e appropriazione indebita. Tutti fatti compiuti da capo di Stato (1990-2000): sono infatti 20 anni che l’estrema destra di Keiko Fujimori, anche lei indagata per corruzione, tenta di imporsi nel paese con l’obiettivo, tra gli altri, di far scarcerare suo padre.

“Hanno vinto le ali più estreme del paese, entrambi conservatori in tema di diritti civili e sulle questioni di genere. Da una parte la sinistra radicale del maestro Castillo sostenuto dai movimenti di base, popolari e più umili, in particolare nelle zone andine, rurali, nelle piccole città e poi c’è la destra di Fujimori legata alle élite economiche ultra-reazionarie di Lima, e rafforzata delle complicità con la criminalità organizzata – spiega Malpartida –. Sicuramente ha perso la sinistra socialista, quella più istituzionale, più mediatica, succube dei propri giochi di potere”. Come è avvenuto in Ecuador l’elettorato ha risposto, a sorpresa, rompendo gli schemi ed invertendo un andamento, che seppur nella sua profonda instabilità, sembrava prevedibile.

L’altra faccia della medaglia. La resistenza del popolo latinoamericano

"Bisogna superare il lutto per le perdite quotidiane e riporre le speranze nelle istituzioni democratiche, nei movimenti sociali, nei Sem Terra, nelle popolazioni indigene, nelle/nei difensore/i dei diritti umani, loro posso tirar fuori la parte migliore del popolo brasiliano, la generosità, l’umanità e la perseveranza”Dario de Sousa e Silva Filho

Al di là di tutte le difficoltà, continuano a non mancare voci di rivolta. In Perù, così come in Ecuador e in Brasile tante organizzazioni indigene non hanno mai smesso di contrapporsi alle politiche estrattive e di sfruttamento dei territori. In Ecuador un nuovo attore politico, emerso in queste ultime elezioni come terzo candidato più votato, è Yaku Pérez, attivista ambientale appartenente alla Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie). La “vittoria” di Perez è un chiaro segnale mandato da una buona fetta della popolazione al nuovo governo.

In Brasile secondo de Sousa e Silva Filho "bisogna superare il lutto per le perdite quotidiane e riporre le speranze nelle istituzioni democratiche, nei movimenti sociali, nei Sem Terra, nelle popolazioni indigene, nelle/nei difensore/i dei diritti umani, loro posso tirar fuori la parte migliore del popolo brasiliano, la generosità, l’umanità e la perseveranza”. Una dimostrazione di questo impegno per la giustizia è stato manifestato con una Lettera aperta all’Umanità firmata da diverse personalità della cultura e della politica, diffusa in tutto il mondo, ma anche gli esempi concreti sui territori sono molteplici. Dorea con la sua realtà associativa continua, ormai da un anno e con sempre meno fondi a disposizione, le sue attività a Salvador de Bahia. Ogni giorno, ogni sera i volontari visitano famiglie in difficoltà, persone che vivono per strada, professioniste del sesso e bambine/i che frequentavano la loro scuola. Portano pasti, spesa, giochi e un po’ di conforto, non si arrendono anche se la fila di chi ha bisogno d’aiuto è sempre più lunga.

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