Gli universitari vogliono la Dad

A differenza dei loro colleghi minorenni, la maggior parte di chi studia nelle università italiane (quasi due milioni) non sembra avere alcuna fretta di tornare alle lezioni in presenza

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

3 maggio 2021

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Quale sarà il futuro delle università dopo la pandemia? Quanti atenei continueranno a offrire la didattica a distanza (dad) anche nei prossimi anni? Dopo lo shock iniziale, la maggior parte degli studenti universitari – quasi due milioni in Italia – non sembra avere alcuna fretta di tornare a lezioni esclusivamente in presenza. L’istruzione digitale, con la possibilità di seguire corsi registrati e sostenere esami da casa, ha offerto soluzioni inedite sia per chi segue regolarmente sia per chi non ha la possibilità di frequentare un campus universitario.

I dati sulle immatricolazioni per l’anno 2020/2021, cresciute del 2,3 per cento, lo confermano. Anziché la temuta fuga dagli atenei, nonostante la crisi, il numero di iscritti ha continuato a crescere premiando le strutture pubbliche a scapito di quelle telematiche e private, quelle grandi e piccole a scapito delle medie e meno note. Sospesa la mobilità e diffusa la dad, sono state scelte le università con migliore reputazione o più legate ai territori. Con queste premesse, gli atenei potrebbero adesso scegliere di adottare soluzioni ibride per essere maggiormente attrattivi e valorizzare gli investimenti in tecnologia e competenze sostenuti durante i mesi di pandemia. Del resto se lo scorso giugno 870 docenti hanno firmato un appello per la riapertura delle università, bocciando sia la dad sia le offerte miste, nello stesso periodo un sondaggio condotto dall’Università di Torino su 3.400 docenti e ricercatori mostrava che più della metà di loro preferirebbe mantenere una didattica in forma mista.

“Non c’è solo chi lavora: ci sono persone a letto con malattie croniche, studenti-genitori, persone con fobie sociali che preferiscono seguire e fare esami da casa”

L’opportunità è ghiotta anche per le aziende che offrono servizi per la didattica digitale. Non è un caso se durante l’ultimo anno le previsioni sugli investimenti del settore EdTech (la tecnologia educativa) a livello globale siano state ampiamente ritoccate al rialzo: 63 miliardi di dollari in più rispetto alle stime pre-covid. Secondo la società HolonIQ la spesa raggiungerà i 404 miliardi di dollari entro il 2025.

Il diritto all'istruzione e la sua tutela, dal mondo all'Italia

Il confronto resta acceso e tocca questioni profonde: qual è il ruolo delle università? Quanto devono garantire mobilità sociale, preparando nel più breve tempo possibile milioni di persone a una buona carriera professionale e quanto devono invece preoccuparsi di essere anzitutto luogo di cultura e costruzione di conoscenza? Ne abbiamo discusso con tre studentesse dell’Università di Torino. Lucia Marchesini, 23 anni, e Giulia Capriotti, 24 anni, sono rispettivamente responsabile comunicazione e organizzazione per l’ateneo piemontese dell’Unione degli universitari (Udu), la più grande associazione studentesca nazionale. Irene Lugano, 32 anni, operaia nel distretto tessile di Biella, è fondatrice e coordinatrice di Universitari per la didattica a distanza integrata (Unidad), un gruppo privato di Facebook che attualmente conta più di 8.700 membri e che da qualche mese è iscritto tra le associazioni studentesche dell’Università di Torino, “anche se le adesioni all’iniziativa arrivano anche da altre città d’Italia”, spiega.

Ragazze*, a che serve la scuola?

Iniziamo con Lugano, che si è reimmatricolata all’università dopo dieci anni perché “non mi ero mai tolta la fissa di voler finire gli studi”. Potenzialmente fa parte di quel sei per cento di laureati che, secondo Almalaurea, arriva al traguardo lavorando stabilmente durante tutto il percorso accademico. Stando ai dati del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) sono circa 20mila persone all’anno. Unidad chiede di mantenere la didattica a distanza come servizio integrativo e complementare alle lezioni tradizionali. “La presenza è l’opzione migliore. Però moltissime persone non possono frequentare le aule universitarie. Vorremmo che la dad fosse mantenuta soprattutto per loro”, dice.

Irene, lei si è trovata bene con la didattica a distanza?

Molto. Ho fatto il primo semestre da non frequentante, ma è stato un mezzo disastro. Sui libri da sola, dopo dieci anni, con programmi più ampi rispetto a chi frequenta le lezioni, non ho sostenuto neppure un esame. Al secondo semestre, con la dad, ho potuto seguire le lezioni online ed è cambiato tutto: ho superato quattro esami.

I membri di Unidad sono tutti lavoratori e lavoratrici?

Siamo partiti da chi lavora, ma nel corso dei mesi abbiamo scoperto situazioni diversissime tra loro. Persone bloccate a letto a causa di malattie cronico-degenerative, caregiver che assistono un familiare ammalato, studenti-genitori, studenti che soffrono di fobie sociali e preferiscono seguire e dare esami nel chiuso della loro stanza, davanti al computer.

Il lockdown ha peggiorato la salute mentale della popolazione. Non crede sia rischioso favorire l’isolamento?

Vero, però ci sono persone che vivono malissimo l’esperienza universitaria. Magari gli stessi che in aula non intervengono mai, riescono invece a farlo da dietro un computer. E poi la dad non allontana sempre dalla vita sociale, anzi, ho conosciuto moltissime persone in questo modo: se non frequenti, le conversazioni dei compagni di corso sui gruppi whatsapp spesso risultano incomprensibili, se puoi seguire le lezioni a distanza, invece, sai di cosa parlano e puoi partecipare.

La tecnologia bene comune, contro le disuguaglianze digitali

Quali altri vantaggi trovate nella dad?

La possibilità di seguire i docenti e apprendere dalla loro spiegazione, senza alimentare la detestabile compravendita degli appunti, che ti costringe a fidarti delle annotazioni di qualcun altro, a volte prese pure male. Con le registrazioni puoi riascoltare qualcosa che non hai capito, puoi usarle per ripassare.

Perché, anziché chiedere che l’università venga a casa vostra, non chiedete di essere messi nelle condizioni di andarci?

A me cambia poco non pagare le tasse o avere degli aiuti per l’affitto, perché ho 32 anni e devo andare a lavorare. Ho esigenze diverse. A noi servono corsi registrati, così posso seguirli al mattino prima di uscire di casa o la sera, ed esami online. Tanti datori di lavoro storcono il naso se prendi una giornata di permesso per andare a sostenere l’esame. Le 150 ore del diritto allo studio non sono sufficienti e non ti mettono a riparo da critiche.

Perché si è iscritta all’università? Le piacerebbe cambiare lavoro?

Mi piacerebbe ma non è l’obiettivo primario. Studio per il piacere di studiare. Amo il cinema, è la mia grande passione, perciò mi sono iscritta al Dams. Se ci lasciano questa possibilità penso di iscrivermi anche alla magistrale, dopo la triennale. L’università non dovrebbe essere solo un’occasione di studio per chi si diploma e vuole trovare un lavoro migliore, ma accessibile a chiunque e a tutte le età, anche per il pensionato che vuole rimettersi a studiare.

Avete mai discusso con i docenti la vostra proposta?

Non ancora. Il nostro prossimo passo sarà inviare la nostra richiesta, corredata da testimonianze, al presidente del Consiglio, ai ministri dell’Università e della ricerca, per le Disabilità, al dipartimento per le Pari opportunità e ai vertici delle istituzioni universitarie. Speriamo di avviare un dialogo.

Che tipo di testimonianze manderete?

Abbiamo cercato di coprire tutte le categorie. C’è anche la storia di una ragazza che vive in Toscana e si è iscritta all’Università di Sassari perché era l’unica che all’inizio della pandemia prometteva di mantenere la didattica a distanza. È bloccata a letto per una brutta malattia cronica. Ha raccontato che da quando studia è uscita dalla depressione.

E se non vi risponde nessuno?

Non ci fermeremo, faremo un invio, poi ne faremo un altro. Cercheremo di crescere in modo da non poter essere ignorati.

Lavialibera va a scuola, una rivista a sostegno della didattica

Giulia e Lucia, gli universitari non vedono l’ora di tornare in aula?

Giulia: Ni. Abbandonare di punto in bianco la didattica in presenza ci ha segnati molto in termini di perdita, sia di interazione umana sia di insegnamento. Ma la pandemia ci ha anche costretti a sperimentare le potenzialità della tecnologia e i suoi vantaggi. Se può servire a migliorare i servizi delle università perché rinunciare? Anche le lezioni in presenza hanno dei forti limiti quando sono frontali e nozionistiche. Quindi, sì, c’è voglia di tornare in classe, ma la maggioranza di studentesse e studenti chiede garanzie sul mantenimento dell’online. Non importa in che forma – una lezione registrata, l’audio del professore che parla sulle slides – purché sia una valida sostituzione delle lezioni in presenza. E non perché lavoriamo, ma perché è un servizio. Lucia: Aggiungo solo che la Dad ha consentito a molti di tornare in università. Ciò che manca in questo momento sono soprattutto gli spazi per studiare, come le biblioteche e le sale studio. Anche se io, studiando lingue, preferisco di gran lunga la presenza.

La dad ha migliorato la qualità delle lezioni?

Lucia: Non sempre, dipende dal docente e l’età anagrafica ha un peso. Alcune lezioni sono diventate più interattive, ma non è sempre così.

Quali sono gli aspetti che creano maggiori divisioni, tra studenti e tra studenti e docenti?

Giulia: Le lezioni registrate. La componente docente è compatta sull’idea di tornare in presenza, ma divisa sulla possibilità di offrire agli iscritti lezioni registrate e sistemi di controllo per gli esami online. Anche la comunità studentesca si è divisa, per alcuni la registrazione è dirimente, per altri il tema è soprattutto la qualità della didattica.

“A pari titolo e costi potrebbe esserci un boom di iscrizioni nelle università che offrono anche corsi online”

La disponibilità di lezioni online potrebbe diventare un criterio nella scelta dell’università cui iscriversi?

Lucia: Penso che a pari titolo, potrebbe esserci un boom di iscrizioni nelle università che offrono corsi anche online.

Giulia: Succederebbe soprattutto a parità di costi. Molti si sono immatricolati quest’anno proprio perché c’era la possibilità dell’online che abbatteva i costi di un trasferimento e perché non potevano permettersi un’università telematica.

La dad potrebbe aumentare la tendenza a vivere l’università come lasciapassare per il mondo del lavoro da attraversare nel più breve tempo possibile, valorizzando i titoli più della conoscenza?

Giulia: Sì, durante la pandemia abbiamo molto discusso di produttività degli studenti e delle studentesse. Del resto, siamo immersi in una società che ci spinge a vivere l’università in un’ottica professionalizzante. Si corre per acquisire titoli e arricchire il curriculum. La pandemia, con la dad, ha indotto molti ad approfittarne per fare il più possibile. Siamo cresciuti con l’idea che “se non hai la laurea non fai neppure lo spazzino”, la preoccupazione maggiore è cosa farne dopo averla conquistata.

Lucia: Viviamo il futuro con forte ansia. La si respira soprattutto nei corsi di magistrale, quando si avvicina il momento della fine degli studi. Spesso le aspettative sono quelle di uno stage, se va bene sottopagato. Molti progettano di andare all’estero. L’università è il tempo nel quale raccogli il più possibile per garantirti un ingresso nel mondo del lavoro.

Da lavialibera n°8 2021

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