Una ospite di casa Gabriela, la comunità per vittime di tratta dell'associazione Gruppo Abele di Torino, studia la lingua italiana. Credits: Toni Castellano
Una ospite di casa Gabriela, la comunità per vittime di tratta dell'associazione Gruppo Abele di Torino, studia la lingua italiana. Credits: Toni Castellano

La lotta alla tratta è stata smantellata

Dopo aver costruito un sistema invidiato nel mondo, l'Italia ha accantonato il contrasto allo sfruttamento degli esseri umani. Proprio mentre crescono i numeri del fenomeno

Luca Rondi

Luca RondiOperatore area vittime del Gruppo Abele e giornalista

13 ottobre 2021

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Sono migliaia le persone fatte arrivare in Italia con l’inganno di un buon posto di lavoro e poi costrette a prostituirsi o sfruttate nei campi. Ma nel Governo la lotta contro la tratta è affidata al lavoro di sole tre persone. Dopo aver costruito un sistema invidiato dal resto del mondo, il nostro paese ha messo in secondo piano il contrasto allo sfruttamento degli esseri umani, soprattutto sessuale. È diminuita l’attenzione politica sul tema, è meno capillare l’azione delle forze dell’ordine ed è sempre meno usato l’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione: lo strumento di protezione sociale che è stato fondamentale fino al 2010 e da cui oggi si potrebbe ripartire per garantire la tutela delle vittime di tratta. Anche se sono necessarie alcune modifiche.

Gli sfruttatori sono diventati più intelligenti. Oggi puntano sul consenso più che sulla violenza

L’inadeguatezza delle vecchie forme di tutela

La norma permette alle donne costrette a prostituirsi di accedere a un programma di protezione e integrazione in due modi: tramite denuncia o grazie a un percorso sociale. In quest’ultimo caso, la persona viene accompagnata in questura dall’ente antitratta e racconta la sua storia di sfruttamento. Racconto che viene valutato dalle forze dell’ordine, ma che non deve necessariamente trasformarsi in denuncia. Quando è stato approvato, nel 1998, l’articolo 18 ha segnato una svolta: per la prima volta, il titolo di soggiorno è stato slegato all’andamento del procedimento che segue una denuncia, diventando un diritto. Vent’anni dopo, però, quello strumento è in crisi. I numeri che lavialibera ha ottenuto dal ministero dell’Interno mostrano una crescita continua dei rilasci dei permessi di soggiorno per articolo 18 fino al 2009. Poi è iniziata un’inversione di tendenza e nel giro di dieci anni si è passati da 908 rilasci l’anno ai soli 155 registrati nel 2019. Un dato che contraddice quello relativo all’aumento dell’incidenza dello sfruttamento sessuale nella nostra penisola. L’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) stima che delle 11mila donne nigeriane sbarcate in Italia nel 2016 (erano state 1500 nel 2014), l’80 per cento era potenzialmente vittima di tratta. «L’attuale disapplicazione della norma è legata a due ragioni – sottolinea Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma e collaboratore dell’Osservatorio Placido Rizzotto sulle agromafie –: lo strumento non è applicabile per le forme di sfruttamento lavorativo, fenomeno in forte crescita a partire dal 2010, e non è più soddisfacente neanche per le vittime di tratta a scopo sessuale». 

A Palermo un porto sicuro per le migranti in cerca di un riscatto

Per il rilascio di questo tipo di permesso di soggiorno, il pericolo vissuto dalla persona che decide di sottrarsi alla rete criminale deve essere attuale. Ma negli anni il legame tra vittime e sfruttatori è cambiato. «Gli sfruttatori – continua Carchedi – sono diventati più intelligenti. Quando vedono che una donna non risponde più alle minacce, la lasciano perdere. Puntano sul consenso e non sulla violenza».

“Quando il Governo si è spostato a destra, si è passati dal supportare il sistema antitratta al sopportarlo”

A questo si somma il fatto che sempre più vittime di tratta a scopo sessuale sono regolarizzate attraverso l’asilo politico: una forma di protezione internazionale concessa a chi rischia di essere perseguitato nel proprio Paese di origine. Francesca Nicodemi, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), spiega che «da un lato, sono le stesse organizzazioni criminali a suggerire alle donne di chiedere asilo: in questo modo le regolarizzano, evitandone l’espulsione, e sfruttano il sistema di accoglienza italiano. Dall’altro, anche gli enti antitratta hanno cominciato a preferire questo strumento perché fornisce più garanzie».

Il motivo è che l’asilo politico dura cinque anni e non richiede la denuncia nei confronti degli sfruttatori. La valutazione della domanda spetta a un organo ad hoc (le commissioni territoriali), che considerano l’attendibilità generale delle dichiarazioni della donna. Mentre il titolo di soggiorno legato all’articolo 18 dura solo sei mesi (rinnovabili di altri sei) e il percorso sociale non è mai stato molto applicato: alla vittima viene spesso chiesto di denunciare, un passaggio che non tutte sono disposte a fare.
L’asilo politico non può essere considerato una cattiva notizia tout court perché, se rilevano determinati indicatori (come la giovane età e una storia stereotipata), le commissioni territoriali danno alle donne la possibilità di incontrare gli enti antitratta e quindi di accedere a percorsi di accoglienza. Ma, a differenza dell’articolo 18, l’iter che si segue non garantisce la definitiva fuoriuscita dalla rete criminale e, soprattutto, fa venir meno l’attività di contrasto al fenomeno. 

Meno indagini, più vittime

Anche l’attività di indagine delle forze di polizia è diminuita. I reati denunciati per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione da tutte le forze di polizia sono in calo dal 2010: si passa da 1695 denunce alle 339 del 2020. Anche le denunce delle vittime di tratta sono diminuite dal 2015 in poi. «Sicuramente l’attenzione è diminuita – sottolinea Carchedi –. Ma è anche cambiata la qualità degli arresti: in Italia si sono celebrati processi che hanno contribuito a fermare importanti reti criminali, ma poi si è disinvestito sull’emersione più capillare. Il calo dei rilasci dei permessi di soggiorno per articolo 18 dal 2009 al 2010 è legato anche alla crisi economica. I servizi sociali sono stati depotenziati e sono state tagliate moltissime risorse del welfare e della sanità. È tutto il sistema, nel suo complesso, che ha abdicato all’intervento sociale».

Violentate e pagate meno: donne al lavoro nei campi

Se l’attenzione diminuisce, il fenomeno criminale invece continua a crescere e cambia. Nel febbraio 2021 il Parlamento europeo ha chiesto agli Stati membri di aumentare l’impegno nel contrasto alla tratta di esseri umani sottolineando che le vittime sono coinvolte in molti settori: dall’agricoltura alla criminalità. Lo confermano i dati dell’ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) secondo cui nell’ultimo decennio c’è stato un aumento dei casi di tratta ai fini di sfruttamento lavorativo, passati dal 18 per cento (2006) al 38 per cento (2018) del totale. Un aumento minore ma costante si registra anche relativamente alla tratta per altre forme di sfruttamento (12 per cento), tra cui quella prevalente è per attività criminali (6 per cento del totale), seguita dall’accattonaggio (1,5 per cento). Un’evoluzione del fenomeno non registrata, però, negli interventi degli enti antitratta. «Oggi l’80 per cento delle donne prese in carico sono nigeriane quando in strada rappresentano il 37 per cento delle presenze – spiega Andrea Morniroli, presidente della cooperativa Dedalus –. Questo significa che siamo in ritardo rispetto alle trasformazioni del fenomeno sia perché manca un coordinamento centrale del nostro sistema di intervento sia perché noi enti abbiamo riflettuto poco su come avremmo potuto evitare il cambiamento dell’attenzione politica».

Gli operatori faticano a intercettare i cambiamenti. Manca un coordinamento centrale

Ripartire dal passato

Un mutamento dimostrato anche dal ritardo, solo in parte legato al Covid-19, nella pubblicazione del nuovo Piano nazionale antitratta (Pna): il documento programmatico triennale che delinea le linee di intervento, scaduto nel 2018. Nel maggio 2021 è stato pubblicato il nuovo bando per i progetti antitratta su linee di intervento non aggiornate. «Negli ultimi vent’anni – continua Morniroli – abbiamo avuto un cambio di attenzione da parte del Governo centrale che, soprattutto quando ha espresso forze politiche di destra, ha cambiato una vocale nella sua attività: si è passati dal supportare il sistema antitratta a sopportarlo. Ed è una “o” che segna una trasformazione radicale: quando sopporti un sistema, non ci investi in termini di personale, di risorse, di struttura amministrativa, di fatto lo svuoti e lo lasci lì. La pubblicazione del nuovo bando e la ripresa dei lavori della cabina di regia che si occupa di scrivere il Pna suggeriscono che, quantomeno, il dipartimento per le Pari opportunità (cui fa capo la lotta antitratta, ndr) ci sta provando. Oggi solo tre persone lavorano sulla tratta e sono quasi eroiche. Devono occuparsi di tutto: dalla rendicontazione, al bando, alla redazione del nuovo piano». Una «governance centrale» promossa dal dipartimento per le Pari opportunità sarebbe la risposta più efficace secondo Morniroli: «E poi servono più finanziamenti, 20 milioni sono un’elemosina istituzionale». I costi dell’assistenza specialistica per le persone prese in carico dal sistema antitratta sono elevati: più il budget è limitato, meno fondi rimangono per l’attività di emersione dello sfruttamento.

Il futuro, a causa della pandemia, preoccupa e la politica stenta nel mettere in atto azioni coordinate. La chiave però sta nel passato: l’articolo 18 è ancora lo strumento da cui ripartire. «Bisogna mantenere la filosofia alla base di quella norma – conclude Carchedi – ma va modificata in alcune parti in modo che sia applicabile sia allo sfruttamento sessuale sia a quello lavorativo e ad altri fenomeni. Ma, soprattutto, va resa appetibile, in termini di durata e opportunità, per chi sceglie quella via di regolarizzazione. L’articolo 18 deve diventare il cappello normativo in cui prevenzione, contrasto, presa in carico delle vittime e collaborazione con i Paesi terzi, trovino pieno svolgimento».

 In Italia prostituirsi non è quasi mai una libera scelta

In Italia prostituirsi non è quasi mai una libera scelta. Lo dice un’indagine conoscitiva che la Commissione affari costituzionali del Senato ha condotto sul tema in ottica antitratta, concludendo che una regolamentazione della prostituzione nel nostro Paese è da escludere. Non solo perché non c’è un “favore diffuso” per un’evoluzione dell’ordinamento in quella direzione, ma soprattutto per quanto stabilito da una sentenza della Corte costituzionale del 2019, citata dall’indagine: “La scelta di vendere sesso è quasi sempre determinata da fattori che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo”, si legge. Nel 1958, a seguito della legge Merlin, l’Italia ha adottato un modello abolizionista come gran parte d’Europa: la prostituzione è considerata legale, ma ne viene punito lo sfruttamento, il reclutamento e il favoreggiamento. Ciclicamente alcune forze politiche hanno proposto di modificare la legge, adottando un modello regolamentarista che la tratta come una qualsiasi attività commerciale, disciplinandone le forme di esercizio. Opzione che viene esclusa dall’indagine parlamentare, secondo cui le strade possibili sono due: o la legislazione vigente, o quella scelta dalla Svezia e da altri paesi nordici, dove si sanzionano i clienti. 

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