Mimmo Lucano nell'aula della Corte di Locri (Foto di Francesco Donnici)
Mimmo Lucano nell'aula della Corte di Locri (Foto di Francesco Donnici)

L'esilio, la resistenza e la condanna: le tappe del processo a Mimmo Lucano

L'ex sindaco di Riace è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi: una storia giudiziaria lunga tre anni. Rimangono tante domande, due gradi di giudizio, e un "encomiabile" sistema di accoglienza smantellato

Francesco Donnici

Francesco DonniciGiornalista

1 ottobre 2021

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Rimangono tante domande. Rimangono due gradi di giudizio. Rimangono chiuse le porte a Riace, ancora una volta. A mezzogiorno la campanella preannuncia l’ingresso della Corte del tribunale di Locri presieduta dal giudice Fulvio Accurso che dà lettura del dispositivo della sentenza di primo grado nel processo “Xenia”. Gli imputati sono in tutto 27. Le pene, pesantissime. Condanne in media raddoppiate rispetto alle richieste avanzate dall’accusa. La più alta è per il principale imputato: Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, viene condannato a 13 anni e due mesi di reclusione. Anche se è cambiato il movente: prima l'accusa era di aver intascato soldi grazie al sistema di accoglienza, ora di aver fatto tutto per "ottenere un tornaconto politico elettorale". 

C'era una volta Riace. Quel che resta di un sogno

Lo scorso 18 maggio, il pubblico ministero Michele Permumian, contestando 15 capi d’imputazione totali, per lui aveva chiesto una pena di 7 anni e 11 mesi. Richiesta che già in quella sede destava perplessità nonostante il magistrato avesse sottolineato come la procura guidata da Luigi D’Alessio avesse deciso di "tenersi bassa" nelle domande. Tesi ribadita dal procuratore capo dopo la sentenza al Giornale radio Rai: "Non è che io sia soddisfatto di tutti questi anni che il tribunale ha comminato. Noi ci eravamo tenuti sui minimi di legge possibili. Il Tribunale gli ha dato ben di più". Riformulato in parte anche l’impianto accusatorio. Lucano viene condannato per i reati di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa aggravata (con riferimento alla gestione dei progetti per l’accoglienza attivi nel borgo), falsità materiale e ideologica commesse dal pubblico ufficiale, peculato e abuso d’ufficio relativo all’affidamento (diretto) del servizio di raccolta rifiuti ad alcune cooperative sociali del borgo. Cadono le accuse di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre per prescrizione non si procede per ulteriori illeciti in materia di appalti pubblici. Sono queste le condotte che integrano la condanna riformulata dalla Corte di Locri. Il procedimento logico che sta alla base si potrà conoscere solo tra 90 giorni, termine fissato per il deposito delle motivazioni.

La lettura della sentenza a Mimmo Lucano. (Foto di Francesco Donnici)
La lettura della sentenza a Mimmo Lucano. (Foto di Francesco Donnici)

Le prossime fasi del processo e le reazioni alla sentenza

Sicura l’impugnazione in Appello, come già anticipato dai legali di Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano che aveva assunto l’incarico il 4 gennaio, qualche giorno dopo la morte dell’avvocato Antonio Mazzone. Gli interrogativi incombono: "Mi chiedo se in Calabria ci siano state sentenze così pesanti nei processi per mafia". All’uscita dal tribunale Mimmo Lucano non ha l’espressione che lo aveva accompagnato in aula qualche ora prima, mentre citava una frase di monsignor Bregantini, ex vescovo di Locri-Gerace (oggi vescovo di Campobasso), fin dal principio vicino all’esperienza di Riace: "Il male è veramente tale quando ti fa perdere il sorriso".

L’ex primo cittadino del così detto “borgo dell’accoglienza”, in queste settimane impegnato nella campagna elettorale per le regionali a sostegno del candidato governatore Luigi de Magistris, all’uscita dall’aula quel male inizia a sentirlo mentre si abbandona ad un "è tutto finito, senza politica non so cosa può esserne della mia vita". Ad attenderlo ci sono i volti dell’inseparabile Alex Zanotelli, Lucio Cavazzoni, Enzo Infantino, solo per citarne alcuni. C’è Peppino Lavorato, storico sindaco antimafia di Rosarno, tra le cui braccia morì, assassinato dalla ‘ndrangheta nel 1980, il segretario del Pci Giuseppe Valarioti. I volti di un Paese “ideale”. Questo primo ottobre si raduneranno tutti a Riace, "perché – dice Zanotelli – bisogna reagire. E bisogna farlo subito".

Luigi Ciotti: "Sentenza pesantissima"

Te lo aspettavi? Gli chiedono. "No, mi aspettavo un’assoluzione piena". Lucano non ha mai fatto mistero di aver compiuto presunte irregolarità, ma a fare male sono i motivi che, secondo l’accusa, avrebbero animato il suo agire. Da un lato c’è il racconto di una spinta a voler fare del bene necessaria e ostinata: "Io la carta d’identità gliela faccio, ma sono un fuorilegge perché dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità. Proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge" si sentiva in un’intercettazione. Dall’altro, quello di un primo cittadino che agli occhi della procura di Locri diventa un "soggetto sciolto dalla legge, dominus assoluto all’interno del Comune" che fa tutto per un "tornaconto politico-elettorale".

La genesi: le contraddizioni del teste e il ruolo della Prefettura

L’avviso di garanzia per il sindaco Lucano arriva a Riace nel novembre del 2017. La procura ha aperto un fascicolo d’indagine nei suoi confronti dopo la denuncia-querela sporta alla Guardia di finanza da un commerciante del luogo. Francesco Ruga passa dall’ammirazione all’astio dopo che il sindaco l'aveva denunciato per una serie di "messaggi molesti". L’uomo si dice "stremato dalle richieste di emettere fatture gonfiate" arrivate da Lucano e Fernando Antonio Capone (per lui condanna a 9 anni e 10 mesi), legale rappresentante dell’associazione Città Futura, che a Riace gestisce i progetti per l’accoglienza. Ruga diventa il “teste-chiave” dell’accusa, ma incalzano le contraddizioni nel suo racconto. All’udienza dibattimentale dell’11 gennaio 2021, interrogato dal presidente, nega di aver subito pretese minatorie da Lucano. Il teste viene bollato come "inattendibile" e il suo atteggiamento è considerato di "evidente astio" nei confronti dell’allora sindaco.

Francesco Ruga passa dall’ammirazione all’astio dopo che il sindaco l'aveva denunciato per una serie di "messaggi molesti"

Nel frattempo, però, anche a fronte di una relazione prefettizia di quel periodo, la Guardia di finanza avvia degli accertamenti riferiti all’arco temporale che va dal 2014 al 2017 sui progetti attivi nel Comune: Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), Centro di accoglienza straordinaria (Cas) e quello per minori stranieri non accompagnati (Msna). Oltre alla querela, ci sarebbe un altro fattore alla base dell’attivazione degli inquirenti: le relazioni ispettive dei funzionari Sprar inviati dal Viminale e quelle della Prefettura di Reggio Calabria. Vengono riscontrate una serie di criticità che diventeranno parte integrante della requisitoria. Anzitutto la "confusione tra Sprar e Cas": i funzionari individuano nelle strutture dedicate allo Sprar soggetti che erano in carico al Cas. Quindi, nel merito dei progetti, le contestazioni vanno dalla "debolezza dei servizi minimi garantiti" all’assenza del servizio di orientamento legale. Secondo l’accusa, come addetti al progetto erano stati inseriti "soggetti non aventi competenze in materia di immigrazione" facendo risalire la causa alle presunte mire “clientelari” di Lucano. Vi sarebbe poi il "problema dei lungopermanenti", ovvero soggetti che rimanevano a Riace anche quando il termine del progetto di accoglienza era scaduto nei loro confronti. In ultimo, i funzionari parlano di alloggi che non rispettavano gli standard qualitativi richiesti da progetto e di "laboratori non sempre funzionanti". Il “cuore” pulsante della rinascita riacese diventa, nelle parole dell’accusa, "uno specchietto per le allodole, utile ad attirare i turisti".  

Esiste però un’altra relazione prefettizia, "anomala perché non burocratica", firmata dal funzionario Francesco Campolo, che chiedeva tutele per il “modello” Riace e concludeva con un plauso a quel Comune che aveva "sempre fornito una importante collaborazione a questa Prefettura assicurando l'ospitalità che molti altri Centri della provincia avevano prima denegato". Riace era diventata punto di riferimento per la Prefettura al tempo guidata da Michele di Bari – promosso al Viminale poco dopo lo sgombero dell’ex baraccopoli di San Ferdinando – che da un certo momento in poi cambia atteggiamento. "È normale – si chiede allora l’avvocato Daqua – che la prefettura che fino a quel momento applaude e si serve del modello Riace, si costituisca parte civile?". 

La fase cautelare: il pugno chiuso, l’esilio e l’abbraccio col padre

All’alba del 2 ottobre 2018 scatta l’operazione Xenia. Il gip Domenico Di Croce firma l’ordinanza di custodia cautelare che raggiunge diversi indagati tra cui Mimmo Lucano, che finisce ai domiciliari, e la compagna Tesfahun Lemlem raggiunta dal divieto di dimora (condannata in primo grado a 4 anni e 10 mesi di reclusione). Del quadro accusatorio il gip “salva” solo due ipotesi di reato: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con riferimento all’organizzazione di presunti "matrimoni di comodo" e irregolarità nell’affidamento (diretto) del servizio di raccolta differenziata alle cooperative L’Aquilone ed Ecoriace. Gli altri capi vengono in parte stroncati dal giudice, com’è il caso degli illeciti contestati sui progetti relativi all’accoglienza, tanto "vaghi e generici" da rendere il capo "inidoneo a rappresentare una contestazione". Il primo momento “iconico” è contenuto nelle immagini di Lucano che saluta la folla sotto la finestra della sua abitazione col pugno chiuso. Diventerà l’immagine della sua personale resistenza. 

Il successivo 16 ottobre, il Tribunale del Riesame revoca gli arresti domiciliari nei confronti del sindaco (nel frattempo sospeso) e applica la misura del divieto di dimora. Inizia così "l’esilio da Riace" che durerà fino al 5 settembre 2019. Nel mezzo, a febbraio, la Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza del Tribunale per le Libertà. A Riace – scrive il giudice di legittimità – Lucano "non ha compiuto alcuna irregolarità nell’assegnazione degli appalti" né ci sono elementi per dire che abbia favorito presunti "matrimoni di comodo". Nonostante la pronuncia e le indagini ormai chiuse, il successivo mese di aprile, il Riesame – muovendo ulteriori censure al quadro accusatorio – conferma la sua linea ribadendo il “divieto di dimora” nei confronti di Lucano che, candidato al consiglio comunale nella lista “Il cielo sopra Riace” (candidata sindaco Maria Spanò) è costretto a seguire a distanza la campagna elettorale che porterà alla vittoria della lista a trazione leghista “Riace rinasce” capeggiata da Antonio Trifoli, oggi sindaco in carica benché decaduto a fronte della sua ineleggibilità".

Sanatoria, Orlando: "Migranti come merce di scambio"

Qualche giorno prima della pronuncia del Riesame, sulla richiesta di rinvio a giudizio della procura si era già pronunciato il gup che aveva individuato il successivo 11 giugno 2019 come giorno della prima udienza. “11 giugno” diventerà anche il nome di un comitato costituito per sostenere Lucano durante l’iter processuale e che alla fine di agosto 2019 si incarica di scrivere a Mattarella per chiedere la sospensione della misura cautelare e permettere a Lucano di abbracciare il padre, malato di leucemia. L’abbraccio ci sarà, ma solo il settembre successivo. Roberto Lucano morirà invece all’età di 94 anni a gennaio 2020. 

Un processo politico?

Il dibattimento davanti alla Corte di Locri dura in tutto 842 giorni di cui tre di camera di consiglio precedenti la pronuncia. Nell’ultima udienza istruttoria, il pubblico ministero chiede l’acquisizione di un articolo che annuncia la candidatura di Lucano alle elezioni regionali. "Non sono fatti che riguardano questo processo", era stata la lapidaria risposta del presidente Accurso. Inizialmene l'accusa era di aver intascato soldi grazie al sistema dell’accoglienza. Tuttavia, nessuna prova era stata raccolta dagli investigatori per corroborare questa tesi. Nella requisitoria finale, l’accusa cambia formulazione parlando di "movente politico" alla base dell’azione di Lucano finalizzato – nella forma stabile dell’associazione a delinquere – ad ottenere riscontro in termini "politico-clientelari". Tesi che secondo la difesa non regge e riporta allo spaccato sulle contaminazioni politiche alla base del processo. "Non abbiamo mai parlato di 'processo politico', ma volevamo che la politica non entrasse nel processo". I legali di Lucano avevano così replicato al procuratore D’Alessio che aveva parlato di congetture per screditare il lavoro dell’accusa: "Questo processo non è né politico, né in contrasto col nobile ideale dell’accoglienza" era stato l’incipit della requisitoria.

La definizione più calzante, in tal senso, la offre lo scrittore e giornalista Enrico Fierro secondo il quale, questo processo avrebbe dovuto incaricarsi "di riportare equilibrio rispetto ad un’inchiesta che ha usato una pesantezza molto politica; che tendeva a soddisfare il clima politico del tempo". Il Viminale guidato da Marco Minniti aveva bloccato i fondi per Riace servendo a Salvini, una volta ministro, l’assist a porta vuota per seppellire il modello. La sentenza dei giudici amministrativi arriva in seguito a sconfessare questo “modus operandi” definendo "encomiabile" l’esperienza di Riace. E tuttavia il dispositivo della sentenza di questo 30 settembre impone anche a Lucano di restituire oltre 530mila euro di fondi ricevuti e di rifondere il ministero dell’Interno, costituito parte civile, di 200mila euro. "Compito dei progetti di accoglienza è quello di emancipare il migrante" era stata la frecciata dell’accusa. Ma proprio secondo monsignor Bregantini: "I migranti, per Riace, erano linfa vitale" e Mimmo Lucano "ha anticipato quanto scritto nell’Enciclica del Papa, Fratelli tutti". 

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