10 dicembre 2021
Ispirarsi alle grandi case di moda, riducendo il prezzo: il fast fashion ha cambiato il mondo di vestirsi, velocizzando la filiera e riempiendo i negozi di prodotti sempre nuovi. Un continuo “cambio di stagione”, fino a 52 collezioni diverse all’anno. Inventato negli anni ‘90, il settore si è espanso sempre di più, conquistando il mercato e facendo leva sui gusti del momento. Una realizzazione istantanea dei desideri, senza badare alla qualità dei materiali utilizzati e ai costi umani, sociali e ambientali.
Fast fashion, la moda insostenibile che inquina e sfrutta
Quasi la metà dei ragazzi londinesi tra i 18 e i 25 anni sente il bisogno di cambiare abito ogni volta che esce di casa, specialmente se ha utilizzato gli stessi capi per foto postate sui social. Quasi un’ansia, documentata dall’organizzazione Hubbub nel 2017: offerte lampo convincono i clienti ad accaparrarsi ciò che spesso hanno visto indossare a star o influencer, prima che la collezione cambi. Così, nell’armadio, si accumulano vestiti che hanno “vita” breve: dai due anni – per intimo e t-shirt – ai dieci per i giubbotti. Secondo l’Environmental protection agency sono 12,8 miliardi le tonnellate di prodotti inviate ogni anno nelle discariche e solo il 12 per cento dei materiali riesce a essere riciclato. Additivi, bassa qualità dei filati, utilizzo di fibre sintetiche rendono il processo di lavorazione costoso e dispendioso, visto l’uso di ulteriore acqua e altri prodotti chimici. La Fondazione Ellen MacArthur da rivelato che solo l’1 per cento dei vestiti si trasforma in accessorio o indumento.
Batterie al litio, i danni ambientali dietro al simbolo green
Qual è il “vero” costo di una maglietta venduta a 5 euro o di un paio di pantaloni a 20? Più di quello scritto sul cartellino, anche se meno visibile. La produzione dei jeans è il secondo più grande inquinante di acqua dolce del mondo. Si stima che il 70 per cento dei laghi e dei fiumi asiatici sia contaminato da scarti dell’industria tessile e che il 90 per cento delle acque reflue in questi Paesi sia riversata senza trattamento. Ma come si è arrivati a questo punto? Passaggio chiave è stata la delocalizzazione: per produrre a prezzi competitivi, la fabbricazione si è spostata dagli Stati Uniti e dall’Europa – dove vivono i clienti finali dei prodotti – ai continenti in cui vigono leggi molto meno stringenti sulla protezione dell’ambiente e sui diritti dei lavoratori. Ogni anno, come rivela uno studio McKinsey, le emissioni di gas climalteranti del settore ammontano al 4 per cento di quelle globali, 2,1 miliardi di tonnellate, quanto l’inquinamento prodotto da Francia, Germania e Regno Unito insieme.
Cos'è sostenibile? Lo dice l'Ue, che però non decide su gas e nucleare
Il Fashion transparency index monitora ogni anno i dati rilasciati dalle case produttrici e le classifica in base alle informazioni sulle politiche, le pratiche e gli impatti sociali e ambientali e sulla catena di approvvigionamento. Le conclusioni non sono confortanti: i progressi sono troppo lenti, anche per le aziende che hanno messo il piede sull’acceleratore in fatto di sostenibilità. Solo il 26 per cento dei brand pubblica un resoconto annuale sulla propria impronta ecologica (indicatore che confronta il consumo umano di risorse e la capacità del pianeta di formarle di nuovo).
Eppure qualcosa inizia a muoversi. Da una parte, la maggior consapevolezza dei consumatori, grazie a campagne di sensibilizzazione e aziende che puntano sul riuso dei capi. Dall’altro, azioni internazionali, come la Carta per l’azione climatica dell’industria della moda, lanciata nel 2018 e rinnovata quest’anno alla Cop26 di Glasgow. Un progetto ambizioso, che prevede anche la transizione a zero emissioni della logistica e del trasporto. Ma non è tutto verde ciò che luccica. I marchi hanno ripulito la loro immagine soprattutto grazie a vaste operazioni di greenwashing: da una ricerca di Changingmarkets emerge che spesso proprio le collezioni “sostenibili” contengono più materiali sintetici delle altre.
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