14 dicembre 2021
Il quartiere Fraschetta nel sobborgo alessandrino di Spinetta Marengo (frazione del Comune di Alessandria) ha piccole case con orti e piscine. Nasce tra l’ampia via Genova che arriva dall’autostrada per Milano e il muro che delimita il vasto polo industriale nato a inizio Novecento e che dà lavoro a oltre la metà dei residenti. “Le famiglie che vivono qui sono composte da persone, ricordi e mamma Solvay”, insiste Viola Cereda, biologa e attivista del comitato Stop Solvay. Solvay è l’ultima delle tante società che hanno gestito il polo chimico ed è leader mondiale di sostanze chimiche considerate forever chemicals: impossibili da distruggere.
Si tratta della famiglia delle sostanze poli e perfluoroalchiliche, meglio note come Pfas, in grado di rendere ignifughe, antiaderenti e resistenti le superfici. Inodori, insapori e incolori vengono rilasciate nell’ambiente dagli scarichi delle industrie, che contaminano così reti idriche, terreni e alimenti, come racconta il processo attualmente in corso a Vicenza nei confronti della Miteni di Trissino e che ha portato l’Onu a parlare della “più vasta contaminazione ambientale nel mondo”.
Ieri l’alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani Marcus Orellana ha dichiarato: “Sono particolarmente preoccupato per la produzione di Pfas da parte della società Solvay a Spinetta Marengo. Questa operazione potrebbe creare un disastro ambientale simile a quello sofferto dalle comunità colpite in Veneto”. Eppure, nonostante la condanna per disastro ambientale innominato del dicembre 2019 nei confronti dei vertici di Ausimont e Solvay, susseguitesi alla guida dello stabilimento, e l’alto tasso di decessi per tumore tra i residenti vicini al polo, a fine novembre l’azienda ha ottenuto l’ampliamento della produzione in tutto lo stabilimento ai Pfas a catena corta cC6O4, la sostanza che rende il 65 per cento degli incassi. La prima autorizzazione è arrivata proprio due giorni dopo la diffida della Provincia a Solvay per non aver denunciato la produzione dello stesso c6O4, con un’ammenda di settemila euro.
Pfas, l'Onu chiede all'Italia limiti nazionali
All’alba di una mattina di febbraio 2021 i carabinieri del Noe di Alessandria entrano in Solvay, raccogliendo tre esposti delle associazioni ambientaliste locali. Si cercano i Pfas, tutti, e le cartelle mediche degli operai, mai consegnate alle autorità locali e nemmeno ai parlamentari della Commissione Ecomafie.
Dopo 10 mesi le indagini sono ancora aperte, uno dei carabinieri è stato esautorato per motivi medici e il procuratore sta raccogliendo dati utili a dimostrare se le sostanze cC6O4 e Adv7800 siano state assorbite da ambiente e animali. Gli ultimi dati dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) di Alessandria non vengono pubblicati integralmente ma confermano lo sforamento dei limiti per il Pfoa (l’acido perfluoroottanoico, uno dei due composti con catene lunghe più utilizzato assieme all’acido perfluoroottansolfonico noto come Pfos) che registra un valore di 0,5 microgrammi per litro a fronte di un limite pari a 0,30. Stessi risultati per il cC6O4, che presenta una concentrazione massima di 2,55 e l’ADV7800 nell’area esterna a 6,35 (il limite è a 2 microgrammi per litro).
Per produrre sostanze chimiche si deve ottenere l’autorizzazione integrata ambientale (A.I.A) rilasciata dalla Provincia, sottostare alla direttiva Seveso che obbliga il monitoraggio dei composti per evitare dispersioni tossiche all’esterno e presentare studi scientifici che dimostrino la non pericolosità del prodotto. Solvay non ha mai dichiarato l’utilizzo e poi la produzione del cC6O4, malgrado in un’audizione di fronte alla commissione Ecomafie a gennaio 2021 lo stesso direttore dello stabilimento Andrea Diotto abbia confermato che dal 2013 la sostanza sia in utilizzo.
Anche Claudio Coffano, direttore del settore ambiente della Provincia di Alessandria, ad aprile 2021 ha spiegato alla stessa commissione come dal 2017 la Solvay produca la sostanza. Eppure, è proprio Coffano ad autorizzare lo scorso 23 novembre la richiesta di portare a 60 tonnellate l’anno la produzione del cC6O4 (stesso tonnellaggio del Pfoa prodotto dalla Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza per cui l’Onu ha parlato della “più vasta contaminazione ambientale nel mondo”).
A luglio l’Agenzia europea per le sostanze chimiche discuterà della messa a bando dell’intera famiglia dei Pfas. In Italia invece manca ancora una legge che limiti queste sostanze allo scarico industriale
Il cC6O4 è stato trovato nelle uova degli uccelli nati e cresciuti vicino allo stabilimento dal Consiglio nazionale per le ricerche (Cnr) nel marzo 2021. Per Pietro Paris, esperto di Ispra che fa parte del Comitato di valutazione del rischio dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche (Echa), questa sostanza ha caratteristiche simili agli altri Pfas in particolare al PFHxA, Pfas prodotto da Miteni e ritrovato nel sangue di giovani e adulti. “È un Pfas a catena corta, persistente e con capacità di contaminazione della falda – spiega –. Come tutti gli altri Pfas verrà bandito perché il rischio che presenta per l’ambiente e per l’uomo è considerato inaccettabile e l’Europa lo sa”.
Tuttavia, se in Europa si discute di bandire tutta la famiglia Pfas – a luglio l’Agenzia europea per le sostanze chimiche discuterà della messa a bando dell’intera famiglia dei Pfas –, in Italia manca ancora una legge che limiti queste sostanze allo scarico industriale. Nel Veneto dove Miteni le ha rilasciate per 50 anni i limiti sono stati posti dall’Istituto superiore di sanità (Iss) nel 2016 per ridurre il rischio sanitario. In Piemonte sono stati approvati nel 2021 dal Consiglio regionale e sono quelli autorizzati dalla Provincia di Alessandria, cinque volte superiori a quelli veneti.
Che di Pfas ci si può ammalare è noto praticamente da quando queste sostanze sono state scoperte negli anni ’30 dal chimico Roy Puckett dell’azienda 3M in America. I primi studi sugli operai esposti e sui possibili effetti sanitari e ambientali risalgono infatti agli anni ’50. Negli anni ’70 le operaie hanno alti tassi di aborti e parti prematuri. Vengono decisi turni a rotazione per diminuire l’esposizione diretta, analisi del sangue mirate a trovarne la quantità precisa, ma nulla viene comunicato ai lavoratori.
Solo alla fine degli anni ’90 la battaglia dell’avvocato Robert Bilott ottiene risarcimenti per la popolazione di Parkersburg, nella Virginia occidentale. Bilott dimostra come il Pfoa e altri composti siano presenti nella rete idrica della città e che l’azienda Dupont (subentrata a 3M) fosse consapevole dell’inquinamento. Dopo vent’anni di processi, Bilott vince oltre 600 milioni di dollari come risarcimenti per le parti civili, riconosciute vittime di contaminazione dell’acqua potabile. Soprattutto, ottiene il bando per produzione e utilizzo di Pfos e Pfoa entro il 2015, in tutto il mondo.
Una causa simile è ora aperta contro Solvay Solexys nello stato del New Jersey, dove la società è accusata di aver utilizzato Pfas senza autorizzazione, importando parte dei Pfas (in particolare la sostanza Adv7800) dall’industria madre in Italia, la Solvay specialty polymers di Alessandria. Dal 2006 Solvay Solexis compare come utilizzatrice di Pfoa in un report dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd) che mappa la produzione e l’utilizzo di queste sostanze nel mondo. L’unica produttrice in Europa è Miteni, situata a Trissino in provincia di Vicenza, attualmente sotto processo per disastro ambientale da sostanze perfluoroalchiliche.
Le barriere poste tra il 2006 e il 2007 da Miteni e Solvay filtrano meno dello sperato: nel 2007 il fiume Po risulta come il più contaminato da Pfoa del continente
In concomitanza con la pubblicazione di questo documento, Miteni e Solvay installano una prima barriera idraulica a filtrare sostanze tossiche sotto i propri siti, senza dichiararne la costruzione alle autorità locali competenti al monitoraggio. Ma i pozzi della barriera, che estraggono acqua dalle falde sotterranee, posti a inizio 2006 da Miteni e nel 2007 da Solvay e controllati dallo stesso ingegnere, filtrano meno dello sperato: nel 2007 lo studio europeo Perforce sulla presenza di Pfoa evidenzia il fiume Po come il più contaminato del continente. Nel documento le conclusioni indicano Solvay come fonte principale delle emissioni e consigliano di ridurre lo scarico della multinazionale per salvare il fiume più lungo d’Italia. Da quel dossier europeo parte uno studio condotto dal Cnr-Irsa che alcuni anni dopo porta alla scoperta della vasta contaminazione da Pfas in Veneto.
Anche ad Alessandria, dove a inizio Novecento un gruppo di industriali decide di costruire un impianto chimico (il polo Marengo) approfittando della grande risorsa idrica del fiume Bormida da cui attingere per il processo della lavorazione chimica, l’inquinamento da Pfas è noto da sempre. Già alla fine degli anni ’50 i sindacati interni denunciano un forte inquinamento del polo da cromo esavalente e bicromati. “L’azienda ha sempre pagato la riparazione delle grondaie perché venivano corrose dall’aria nociva”, racconta un residente del quartiere.
Dal 2004 Solvay destina gran parte dello sforzo economico per la ricerca di composti per le nuove tecnologie, in previsione della messa a bando del Pfoa dopo il 2009 attraverso la convenzione di Stoccolma. In quell’anno stringe con il Politecnico di Milano accordi per realizzare studi specifici sui polimeri destinati a creare le nuove catene corte a sostituzione del lungo Pfoa. Così nel 2008 nasce il progetto del cC6O4: sei atomi di carbonio, più mobile e quindi meno persistente negli organi e nell'ambiente del suo predecessore. Il cC6O4 è destinato a sostituire il Pfoa nelle mascherine chirurgiche, nei cruscotti delle auto elettriche e nelle nuove tecnologie della Leonardo che nel 2020 firma con Solvay una partnership destinata alle nuove sostanze per il settore aeronautico.
Alice Lenaz è nata e cresciuta dietro lo stabilimento, la famiglia ha lavorato per generazioni lì dentro. “Il 23 maggio 2008 ero sotto la doccia, ad un certo punto è mancata l’acqua e sono rimasta lì ferma, ad aspettare”, racconta a lavialibera. Pochi giorni prima erano stati consegnati i dati delle analisi avviate nel 2007 su cromo esavalente e altri composti tossici trovati sotto lo zuccherificio ormai chiuso, a due chilometri dal polo chimico, commissionato dalla catena di supermercati Esselunga che lì vuole costruire un centro commerciale. Ne escono dati allarmanti: il cromo esavalente raggiunge 288 microgrammi per litro (il limite nazionale è di cinque). L’origine della contaminazione è indicata nella fabbrica.
La contaminazione spaventa a tal punto l’amministrazione locale che vengono chiuse senza preavviso le reti idriche locali, poi riaperte dopo qualche giorno, per controllare che l’acqua potabile fosse pulita. “La presidente della municipalità di Spinetta parlò in tecnichese per tutto il tempo, non si capiva nulla. Mio padre che era del settore ha tradotto per tutti e abbiamo capito il rischio che stavamo correndo e ci siamo costituiti parti civili al processo. Ma eravamo pochi, qui tutti lavorano in Solvay e nessuno vuole rimanere senza stipendio”.
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Il dirigente Arpa Alberto Maffiotti denuncia l’alta concentrazione di Pfoa nel fiume Bormida come tracciante di sostanze non dichiarate: “Non conosco da quanto la utilizzano ma sotto lo zuccherificio arriva a 28 microgrammi per litro ed è presente nella falda profonda”. I risultati del monitoraggio vengono raccolti dall’Arpa di Alessandria e dal Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri e iniziano le indagini che portano a processo Ausimont (che dagli anni ’80 controlla lo stabilimento di Spinetta Marengo) e Solvay (la multinazionale belga che subentra nel 2001) per disastro ambientale colposo poi ridotto a innominato. Tra i 38 dirigenti sotto accusa, nel 2009 Luigi Guarracino viene trasferito alla Miteni, azienda da cui Solvay acquista i Pfoa. Il trasferimento anticipa di un anno l’inizio della produzione pilota del cC6O4 a Trissino, dopo che Solvay e I.C.I.G., all’epoca nuova proprietaria di Miteni, si erano avvicendate per 37 milioni di euro alla conduzione della Synkem SAS in Francia e preparavano altri accordi.
Pochi operai testimoniano durante il processo. Francesco Fedda, dipendente dello stabilimento fino al 2003, si è sottoposto a diversi interventi per tumore al terzo stadio del piccolo duodeno e al colon. Nunzia Mancuso, residente in una via limitrofa allo stabilimento, perde il padre per tumore al pancreas dopo aver lavorato tutta la vita nel polo chimico. Ha rischiato di perdere anche la figlia che a soli 18 mesi scopre malata di leucemia e sopravvive dopo quasi cinque anni di chemioterapia. A processo aperto muore per tumore Lucia Rini, caporeparto dello zuccherificio ormai abbandonato da cui era partito l’allarme. Rini ha il tempo di testimoniare che “le analisi delle acque sottostanti lo zuccherificio davano alte percentuali di inquinanti tossico nocivi come cromo, titanio, ione solfato tali da impedire la lavorazione dello zucchero”.
Dopo 10 anni, nel dicembre 2019 la corte d’Appello di Torino condanna Giorgio Canti, Giorgio Carimati e Luigi Guarracino per disastro ambientale innominato. La richiesta del ministero dell’Ambiente è una cifra pecuniaria di 100 milioni per una bonifica integrale, che viene rigettata dal giudice perché per legge non è possibile chiedere soldi ma azioni. Ad oggi non si è ancora proceduto a una nuova richiesta, tramite tribunale civile, per ottenere la bonifica dei terreni.
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