21 luglio 2021
Il 10 novembre 2020 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per la violazione della direttiva europea sulla qualità dell’aria, al termine di un procedimento iniziato nel 2014. Ci viene contestato il superamento dei limiti per il particolato Pm10, ovvero la componente solida e liquida dell’inquinamento atmosferico con diametro inferiore a 10 micron. Ma procedimenti analoghi sono in corso anche per il biossido di azoto e per il Pm2,5, la componente ancora più fine del particolato. L’Italia è il Paese europeo nel quale l’inquinamento atmosferico provoca i maggiori danni alla salute: 60mila morti all’anno secondo l’Agenzia europea per l’ambiente.
Le ragioni di questa situazione sono molte e in parte legate alle condizioni particolari della pianura padana, che soprattutto durante l’inverno è soggetta a un fenomeno di cosiddetta inversione termica che limita fortemente la dispersione degli inquinanti. Questo ne fa probabilmente l’area d’Europa nella quale il problema della qualità dell’aria è più difficile da risolvere. Non è però questa la sola ragione: oltre alle cause naturali, che sono fuori dal nostro controllo, l’Italia si trova in questa situazione anche a causa di una serie di scelte politiche e stili di vita che aggravano di molto il problema.
Negli ultimi 20 anni la concentrazione di inquinanti atmosferici si è complessivamente ridotta grazie soprattutto a miglioramenti tecnologici e al trasferimento di produzioni in altri Paesi. I problemi restano sostanzialmente per tre inquinanti: il biossido di azoto, il particolato e l’ozono. Gli ossidi di azoto si formano durante tutti i processi di combustione e, oltre a essere pericolosi per la salute di per sé, entrano nella formazione dell’ozono e del particolato. Quest’ultimo, infatti, è soprattutto di origine secondaria: non viene emesso dai camini o dalle marmitte, ma si forma in atmosfera, soprattutto a partire dal biossido di azoto e dall’ammoniaca. L’ozono, invece, si forma per complesse reazioni fotochimiche nelle quali entrano gli ossidi di azoto e le sostanze organiche volatili.
Per capire le cause dell’inquinamento è dunque importante partire dalle fonti di produzione degli ossidi di azoto. Secondo i dati del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, a livello nazionale il 60 per cento arriva dai trasporti, il settore del riscaldamento contribuisce per il 13 per cento, quello produttivo per il 10, l’agricoltura si ferma all’otto per cento e il settore energetico al sei. La gran parte del problema è quindi oggi legata a scelte che riguardano come ci muoviamo e come scaldiamo i nostri edifici. Scelte che possono essere influenzate da azioni politiche e legislative, ma che coinvolgono una molteplicità di attori.
Il più grande inquinamento da Pfas d'Europa è in Veneto
Una delle peculiarità dell’Italia rispetto agli altri grandi Paesi europei è la quantità di auto in circolazione: oltre 650 per mille abitanti, contro le 575 della Germania, le 570 della Francia e le 530 della Spagna e con un trend in crescita maggiore rispetto a questi Paesi. Al netto di differenze culturali e di atteggiamento verso l’automobile, questo dato è il riflesso di politiche dei trasporti fallimentari, soprattutto nelle grandi città, dove l’offerta di trasporto pubblico e la promozione della mobilità attiva sono del tutto insufficienti. Le regioni italiane del nord Italia vantano i tassi di motorizzazione più alti d’Europa, secondo Eurostat. Il confronto fra città simili è impietoso: Roma oltre 62 auto per 100 abitanti contro le 50 a Parigi e le 30 a Berlino, Torino con 67 automobili contro le 39 di Lione. Non è quindi un caso che nella recentissima classifica delle città europee per inquinamento da Pm2,5, quattro delle ultime 10 fossero localizzate nella pianura padana.
Senza voler semplificare troppo il problema, sarà impossibile abbattere l’inquinamento dell’aria in Italia se non si deciderà di affrontare seriamente il problema del traffico, incentivando la mobilità attiva e il trasporto pubblico, nonché penalizzando la mobilità privata. I dati delle altre città europee non sono il frutto del caso, ma di politiche perseguite con decisione nel corso degli ultimi decenni per rendere più comodo abbandonare l’auto. Questo, al di là delle considerazioni ambientali e sanitarie, è anche un problema di giustizia sociale. Possedere un’utilitaria in Italia costa in media cinquemila euro all’anno, circa tre mesi di un buono stipendio. E siccome le aree servite peggio dai trasporti pubblici sono soprattutto quelle periferiche dove vivono le famiglie a più basso reddito, ecco che queste sono obbligate ad avere almeno una macchina in famiglia, spendendo di più di chi vive in centro, in un’area ben servita, che potrebbe fare a meno della macchina e che tuttavia avrebbe un reddito più alto per permettersela.
Per dare un’idea dello sforzo necessario a ridurre l’inquinamento sotto i livelli previsti dalla normativa, vale la pena considerare la pandemia da Covid-19, o meglio la situazione che si è creata durante il primo lockdown. Con la forte riduzione delle attività economiche il traffico veicolare è crollato anche del 75 per cento con conseguenti riduzioni delle emissioni di inquinanti arrivate fino al 30-40 per cento per il biossido di azoto e intorno al 20 per cento per il Pm10. Secondo le stime del progetto PrepAir, a cui partecipano tutte le Agenzie ambientali della pianura padana, per rientrare nei limiti di legge si dovrebbero ridurre le emissioni di ossidi di azoto del 39 per cento, di Pm10 del 38 per cento e di ammoniaca (che partecipa alla formazione del particolato atmosferico e deriva per la maggior parte da allevamenti e agricoltura intensivi) del 22. In altre parole, il lockdown ci ha permesso di raggiungere obiettivi che da tempo avremmo dovuto perseguire. Certo è, però, che proseguire su questa strada significherebbe confrontarsi con impatti economici rilevanti, a meno di riforme strutturali significative.
Ambiente e salute, la lezione del coronavirus
Ovviamente il traffico non è l’unica fonte di inquinamento. Se consideriamo le emissioni di gas a effetto serra responsabili del riscaldamento climatico il quadro si complica. Il contributo del traffico scende al 25 per cento, come quello della produzione di energia, mentre l’impatto del settore residenziale arriva al 20 per cento (dati dell’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale, Ispra). Significa che le strategie per ridurre l’inquinamento atmosferico si sovrappongono in buona parte (anche se non completamente) a quelle per affrontare la crisi climatica. É necessario affrontare contemporaneamente e seriamente entrambi i problemi per garantire un futuro sano e giusto per tutti.
Da lavialibera n°9 2021 - Picchio, dunque sono
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