Trentennale stragi. Caselli: "Non possiamo indebolire l'ergastolo ostativo"

Dopo la morte di Falcone e Borsellino venne interrotta la dinamica che rendeva il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio. Oggi gli strumenti antimafia rischiano di essere ridimensionati: un lusso insostenibile

Gian Carlo Caselli

Gian Carlo CaselliEx magistrato e presidente onorario di Libera

17 maggio 2022

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L’eredità del 1992 si può leggere, anzitutto, come eredità lasciataci da tutte le vittime innocenti della violenza mafiosa, Falcone e Borsellino ovviamente compresi. Salvatore Lupo ha scritto che dal loro martirio nasce l’idea (di per sé contraddittoria) delle vittime di mafia come rivoluzionarie, in quanto portatrici di legalità. Viviamo in un Paese nel quale lo Stato si manifesta troppo spesso solo con i volti impresentabili di tanti personaggi eccellenti che con il malaffare hanno scelto di convivere. Le vittime di violenza mafiosa sono state soprattutto straordinarie creatrici di credibilità e rispettabilità. Vale a dire che operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo Stato alle persone, che così riescono a dare un senso alle parole “lo Stato siamo noi”.
Un’altra lettura dell’eredità del 1992 si ricollega al rischio concreto che con le stragi la nostra democrazia potesse precipitare in un abisso senza ritorno. Non si possono non ricordare le accorate parole, “è tutto finito, non c’è più niente da fare”, pronunciate al funerale di Paolo Borsellino da Antonino Caponnetto. Ma dopo un iniziale disorientamento vi è stata una forte reazione corale di contrasto (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica per un paio d’anni “magicamente” unita). Una vera Resistenza che ci ha salvati dall’abisso.

Le stragi, Cosa nostra e la forbice sociale

Un pacchetto di norme che ha ben funzionato

All’unanimità, senza distinzioni di casacche, dopo la morte di Falcone e Borsellino, sia pure con un iter tormentato, viene approvato l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Viene finalmente interrotto quel circuito perverso che rendeva il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio. Il 41 bis si innesta su un'altra novità legislativa, la legge del 1991 che favorisce e incentiva i pentimenti cioè le collaborazioni con la giustizia. Dopo le stragi inoltre si perfeziona l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario che prevede l'ergastolo ostativo, cioè l'esclusione dei mafiosi non pentiti da ogni beneficio penitenziario. Un pacchetto di norme innovative che ha ben funzionato.

Difatti, l'effetto incrociato delle condanne del maxiprocesso (la fine dell'impunità di Cosa nostra) e delle novità legislative è stato dirompente. Se sfuma la facilità con cui in passato si potevano evitare le condanne, se il carcere diventa una cosa “seria” anche per i mafiosi condannati, ecco che si cercherà di ridurre questa tenaglia al minor danno, sfruttando anche gli spazi offerti dalla legge sui pentiti. Forze dell’ordine e magistratura, in questa nuova situazione, ritrovano efficienza ed entusiasmo. E i risultati non tardano ad arrivare: latitanti arrestati, per numero e “caratura” criminale come mai in precedenza; Cosa nostra costretta a subire una pesante stagione di processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con giuste condanne (650 ergastoli); processi anche per imputati “eccellenti” (Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri fra gli altri).

L’Italia ha ripreso così la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxiprocesso. La strada giusta per contenere e alla fine sconfiggere Cosa nostra, che per parte sua ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano, per poi inabissarsi in modo da uscire dai riflettori, rimarginare le ferite, ritessere la tela dei suoi rapporti, riprendere sotto traccia le imponenti attività di accumulazione di capitali.

Il processo sulla trattativa ha aggiunto squarci di verità, ma restano incognite sull’esistenza di mandanti esterni delle stragi

Convergenze massomafiose

Quanto alle verità storiche e giudiziarie ormai assodate sugli avvenimenti del 1992 occorre partire dalla sentenza, emessa il 30 gennaio 1992, che portò alla conferma definitiva – in cassazione – della quasi totalità dell’impianto accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Una vera disfatta per il vertice di Cosa nostra, che si era speso per l’annullamento delle condanne. Un traumatico passaggio di fase rispetto all’ormai consolidato rapporto di scambio tra Cosa nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di faccia e di credibilità, con la prospettiva che la stagione dei “processi aggiustati” e dell’impunità fosse finita per sempre. Cosa nostra reagì con una feroce rappresaglia, massacrando Giovanni Falcone e neanche due mesi dopo Paolo Borsellino. Le due stragi , che per il nostro Paese sono state qualcosa come l’abbattimento delle Twin towers in Usa (come disse Andrea Camilleri), furono quindi una vendetta postuma, ma anche il tentativo di soffocare nel sangue la riproposizione del loro efficace e vincente metodo di lavoro e la “nuova antimafia” (Dna, Dda, Dia e il pacchetto normativo di cui abbiamo già parlato).

Trattativa Stato-mafia: ci fu, ma il reato è solo dei boss

Ostacoli per la ricostruzione

A questo dato di fatto la sentenza della Corte di assise di Palermo nel processo sulla "trattativa" ha aggiunto altri importanti squarci di verità (la motivazione della sentenza di appello, che ancora non conosciamo, spiegherà se i fatti storici sussistono pur non costituendo reato, come sembra potersi desumere dal dispositivo). Permangono tuttavia inquietanti zone d’ombra su alcune vicende chiave di quegli anni, che hanno segnato la transizione dalla prima alla seconda Repubblica: l’esistenza di mandanti esterni delle stragi, nonché l’identità e il ruolo di altri protagonisti o semplici attori della o delle trattative. Interrogativi che richiamano una questione di fondo: il livello di compenetrazione e convergenza, stabilitosi in quegli anni, fra gli interessi mafiosi e quelli di ambienti a essi contigui, per lo più di derivazione massonica, e l’incidenza di tale contiguità sulle scelte strategiche della criminalità organizzata.

La completa ricostruzione di tutti i tasselli delle dinamiche criminali dei primi anni ’90 è comunque ostacolata da un mutamento profondo dell’azione di contrasto a Cosa nostra; in particolare l’arrestarsi di un processo di ricerca della verità, all’interno del quale un contributo importante era stato certamente fornito dalle rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Oggi il nuovo pacchetto antimafia post stragi (che ancora funziona) rischia di essere fortemente indebolito per le aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che – in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici – risulta ridimensionato come rilevanza e come effetti. Un lusso che non possiamo permetterci se non dimenticando la specificità della mafia.

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