1 marzo 2022
È approdato alla Camera dei deputati un intervento, sollecitato dalla Corte costituzionale, su uno dei cardini della lotta alla mafia, l’ergastolo ostativo. Si tratta di una misura con cui si nega agli ergastolani per reati gravi (tra cui mafia o terrorismo) che non hanno mai collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere alla liberazione condizionale e agli altri condannati per quegli stessi reati la possibilità di ottenere benefici penitenziari come i permessi premio o l’assegnazione del lavoro all’esterno del carcere. Martedì 22 febbraio la commissione Giustizia ha terminato le votazioni sui 121 emendamenti presentati dai gruppi parlamentari al provvedimento che riforma l’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, che limita i benefici penitenziari, e il decreto legge del 1991 sulla concessione della liberazione condizionale a chi collabora con la giustizia. Strumenti che insieme, fino ad oggi, hanno dato vita a un meccanismo di contrasto che – incentivando i mafiosi all'ergastolo alla collaborazione – ha permesso di indebolire le organizzazioni criminali. Tuttavia la Consulta li ritiene incostituzionali perché vincolando alla collaborazione la possibilità di recuperare la libertà sarebbe in contrasto con gli articoli della Carta e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che stabiliscono pari dignità per tutti i cittadini, la finalità rieducativa della pena e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Al parlamento il compito di trovare il giusto punto di equilibrio tra due opposte esigenze. “Con la norma approvata potranno godere dei benefici penitenziari solo quei mafiosi che abbiano realmente provato di aver interrotto qualsiasi contatto con il sodalizio criminale e, dunque, di non rappresentare più alcun pericolo per la società”, sintetizza in una nota Mario Perantoni (M5s), presidente della commissione e relatore del provvedimento.
Lunedì 28 febbraio la proposta è arrivata a Montecitorio e dovrà essere approvata dal parlamento entro il 10 maggio prossimo, giorno in cui la Consulta tornerà a riunirsi dopo aver dato, con un'ordinanza dell’11 maggio 2021, un anno di tempo per riformare l’ergastolo ostativo. La necessità era stata ribadita anche dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia nel corso della sua relazione al parlamento sullo stato dell’amministrazione della giustizia. Tuttavia emergono qua e là alcuni problemi che, se non corretti, potrebbero compromettere il lavoro compiuto finora. La preoccupazione è soprattutto legata all'eventuale liberazione di figure importanti della criminalità, come i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss stragisti di Cosa nostra.
Ergastolo ostativo, il diritto alla speranza sia per tutti
Il testo elaborato dalla commissione giustizia il 17 novembre nasce dall’unione su tre proposte presentate rispettivamente da Mattia Ferraresi (Movimento 5 stelle), Andrea Delmastro Delle Vedove (Fratelli d’Italia) ed Enza Bruno Bossio (Partito democratico). Il 22 febbraio c'è stato il voto sugli emendamenti (121 quelli presentati). Tutti i gruppi parlamentari – eccezion fatta per FdI – hanno votato a favore del nuovo testo. “Abbiamo trovato una mediazione tra i valori espressi dalla Consulta e la necessità di mantenere il rigore nei confronti della detenzione dei boss mafiosi”, affermava al riguardo Perantoni.
Con i suoi quattro articoli la proposta di riforma dell’ergastolo ostativo va a toccare la legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Le modifiche, in particolare, riguardano l’articolo 4-bis, che sancisce il divieto di concedere permessi premio o il lavoro esterno ai condannati per delitti di mafia, terrorismo e altri reati molto gravi (associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, violenze sessuali, alcuni reati contro la pubblica amministrazione e altro ancora).
Il testo adottato dalla commissione prevede che i benefici possano essere concessi anche ai detenuti che non collaborano purché abbiano risarcito vittime e parti civili (oppure abbiano dimostrato “l’assoluta impossibilità” di farlo) e purché dimostrino di aver reciso i collegamenti con le organizzazioni criminali, terroristiche o eversive.
Oltre a queste informazioni, il giudice di sorveglianza dovrà anche chiedere il parere del pubblico ministero del tribunale competente e – nel caso di condanne per reati di mafia e terrorismo – anche del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Importanti saranno anche le “informazioni dalla direzione dell'istituto” di detenzione. Potrà anche ordinare nei confronti del condannato e verso gli “appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate” accertamenti in ordine alle “condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali”.
Se si dovesse scoprire che i collegamenti con la “criminalità organizzata, terroristica ed eversiva” sono ancora in vigore, sarà il condannato a dover fornire prove contrarie.
Per quanto riguarda invece la liberazione condizionale, a decidere sui singoli casi non sarà un magistrato di sorveglianza, ma il tribunale di sorveglianza in sede collegiale, una maniera per mettere il singolo giudice al riparo da eventuali pressioni illecite.
Per poter richiedere la libertà condizionale, inoltre, gli ergastolani dovranno aver espiato almeno trent’anni di carcere, rispetto i 26 previsti per un ergastolano semplice. Una volta libero, il condannato dovrà rispettare il “divieto di incontrare o mantenere comunque contatti” con persone condannate per i reati di mafia o terrorismo. Infine, prevede uno degli emendamenti approvati, trascorsi dieci anni dalla liberazione condizionale la pena dell’ergastolo “rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo”.
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"Sul tema dei permessi premio manca lo spostamento della competenza al Tribunale di sorveglianza anziché al magistrato, in modo da evitare che la responsabilità della decisione ricada su un singolo invece che su un collegio”Piero Grasso - Senatore Leu
Piero Grasso, ex procuratore antimafia e senatore di Leu, ritiene il testo “un buon punto di partenza”, ma vorrebbe modificare alcuni aspetti, ad esempio distinguendo tra i reati associativi (come criminalità, terrorismo, traffico di stupefacenti) e i reati individuali, come la concussione, alcuni reati contro la pubblica amministrazione o ancora le violenze sessuali, “che non hanno nulla a che fare col concetto di collaborazione”. Ci sono, secondo Grasso, possibilità di migliorare il testo: “Ad esempio sul tema dei permessi premio, dove manca lo spostamento della competenza al Tribunale di sorveglianza anziché al magistrato, in modo da evitare che la responsabilità della decisione ricada su un singolo invece che su un collegio”. “La collegialità garantisce una decisione più serena, anche per permessi premio e lavoro esterno, e viene meno la possibilità di un reclamo che può favorire una rivalutazione nel merito”, concorda Lucia Annibali (Italia viva). La deputata Bruno Bossio (Pd), il testo dimentica una distinzione, sottolineata dalla Corte costituzionale, tra chi non collabora per una sua scelta e chi invece non lo fa "suo malgrado, volendo soggettivamente collaborare ma non potendo oggettivamente".
FdI, unica forza politica astenuta in commissione, propone una linea più dura a cui si lega la proposta di riforma costituzionale – firmata dalla leader Giorgia Meloni – con cui si vuole limitare il principio di rieducazione della pena.
Altri aspetti critici del testo approvato dalla commissione Giustizia sono emersi mercoledì 23 febbraio nel corso di un’audizione della commissione parlamentare antimafia a cui hanno partecipato il procuratore di Napoli Giovanni Melillo e il professore ordinario di diritto costituzionale all’università Roma Tre, Marco Ruotolo. Melillo ha sottolineato che sulle Direzioni distrettuali antimafia e la polizia giudiziaria potrebbe incombere un compito gravoso, o sui tribunali di sorveglianza, “su questi uffici grava il compito di dimostrare la cessazione dei rapporti dei detenuti con le cosche e gli ambienti mafiosi di riferimento”. Sulla proposta, finora non accolta, di estendere la competenza del tribunale di sorveglianza in forma collegiale anche sui benefici, il costituzionalista Ruotolo nutre qualche dubbio.
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Anche l'associazione Antigone, che opera a tutela dei detenuti, esprime dubbi, ma sul dovere di dimostrare – in capo al detenuto – l'assenza di legami con le organizzazioni criminali o l'innalzamento del limite di pena previsto (da 26 a 30 anni) per ottenere la liberazione condizionale.
Negli ultimi anni la Cassazione, la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) hanno rimesso in discussione l’articolo 4-bis e l'ergastolo ostativo. Secondo quest’ultima, nel caso “Marcello Viola contro Italia”, ha stabilito che la collaborazione con la giustizia non può essere l’unico parametro di valutazione. In generale, queste corti ritengono la norma non coerente con l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e alcuni articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La questione riguarda la maggior parte dei detenuti condannati all’ergastolo: al 24 febbraio 2022 sono presenti negli istituti penitenziari 1.814 detenuti condannati all’ergastolo. Di questi, 1.273 per reati di cui all’art. 4-bis e 541 altri detenuti ergastolani.
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“La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento”Corte costituzionale - Ordinanza dell'11 maggio 2021
A innescare la riforma è stata la Corte costituzionale con l’ordinanza dell’11 maggio 2021, un giudizio di legittimità costituzionale sollevato a sua volta dalla Corte di cassazione, chiamata a giudicare il caso del mafioso Francesco Salvatore Pezzino. Dopo più di 26 anni di carcere, il 6 novembre 2018 il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila ha negato a Pezzino la liberazione condizionale perché non aveva collaborato con la giustizia. La sua difesa, l’avvocato Giovanna Araniti, pensa non si sia tenuto conto della finalità rieducativa della pena, prevista dall’articolo 27 della Costituzione, e ricorre in Cassazione che il 3 giugno 2020 nota – sulla base di varie sentenze della Cedu – come un condannato debba poter aspirare a tornare libero se si ravvede e questa speranza non può essere negata da “preclusioni assolute”, altrimenti si avrebbe un trattamento “inumano e degradante”. Per questo motivo invia la questione alla Consulta affinché dirima i dubbi sulla “costituzionalità” (cioè sul rispetto delle norme della Carta) delle leggi.
Nell’udienza del 24 marzo l’Avvocatura generale dello Stato, che rappresenta il governo, ha chiesto una “sentenza interpretativa di rigetto”: in sostanza, gli articoli in questione non vanno bocciati, ma bisogna abbandonare gli automatismi (niente collaborazione, niente liberazione) e “consentire al giudice di sorveglianza di verificare in concreto le motivazioni addotte dal detenuto per non potere assicurare la condotta collaborativa”.
Nell’ordinanza dell’11 maggio gli ermellini spiegano che “la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento”, quindi decidono di lasciare al legislatore il compito di modificare le norme per evitare un “intervento demolitorio” che metterebbe a rischio il quadro generale.
Sull’impulso delle sentenze della Cedu e della Corte costituzionali del 2019, limitate soltanto ai permessi premio e non la liberazione condizionale, la commissione parlamentare antimafia (che deve vigilare anche sui regimi penitenziari per i mafiosi) aveva dato vita a un comitato speciale che nel maggio 2020 ha pubblicato una relazione sull’articolo 4-bis. Ribadendo che il vincolo della collaborazione legata ai benefici di pene abbia costituito “un meccanismo fondamentale nel processo di smantellamento delle organizzazioni criminali”, rivelando e rompendo il “patto di fedeltà” che lega gli affiliati alla mafia, i parlamentari dell’Antimafia hanno lanciato una serie di proposte facendo una sintesi di quanto emerso dalle sentenze e quanto spiegato loro da magistrati, giuristi e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria.
“Sulla base di quella relazione si doveva cercare di formulare una proposta di legge da parte di tutte le forze politiche. questo purtroppo non è potuto avvenire e si sta arrivando a ridosso di quel termine stabilito dalla corte costituzionale e mi fa paura perché soltanto una parte del parlamento sta affrontando la soluzione di questi problemi”, ha detto mercoledì sera in Antimafia Grasso che, insieme a Stefania Ascari (M5s), ha condotto i lavori sul 4-bis.
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