17 maggio 2022
Cosa è cambiato dal maledetto 1992 ad oggi? Molto e poco. È cambiato molto perché tra il maggio e il luglio di quell’anno eravamo prostrati dalla sensazione che davvero non ci fosse più nulla da fare. Invece, adesso, sappiamo che Cosa nostra, in quanto soggetto militare, non è invincibile. I suoi capi di allora sono quasi tutti sottoterra o sottochiave in una cella e questo destino costituisce – come risulta anche da intercettazioni telefoniche – il più efficace deterrente per le nuove generazioni che esitano a entrare in un’organizzazione che, per la prima volta nella sua storia quasi bicentenaria, non assicura più l’impunità da vivi né solenni funerali religiosi da morti.
Questo mutamento giudiziario-repressivo va riconosciuto con nettezza: lo dobbiamo alla memoria di quanti lo hanno reso possibile col sangue e lo dobbiamo a noi stessi – i sopravvissuti – per non scoraggiarci e per continuare (soprattutto nel silenzio della quotidianità anonima) a erodere ai fianchi l’egemonia mafiosa. Tuttavia, se abbiamo un’idea adeguata del sistema di dominio mafioso – un sistema criminale pluridimensionale: militare, ma anche politico, sociale, culturale – dobbiamo riconoscere amaramente che in questi trent’anni è cambiato poco. Troppo poco.
Paolo Setti Carraro: "Anche i mafiosi cambiano"
Mentre scrivo queste righe la mia città, Palermo, è tappezzata da manifesti elettorali con il simbolo della Democrazia cristiana e lo slogan “Siamo tornati. Tornate anche voi”. Chi è tornato? Salvatore Cuffaro, già presidente della giunta regionale siciliana. Da dove è tornato? Da una reclusione carceraria in seguito a una condanna a sette anni per favoreggiamento di mafiosi. Perché è tornato? Perché non è opportuno che a dispensare consigli sulle strategie elettorali sia soltanto Marcello Dell’Utri, anch’egli reduce dal carcere dopo una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi sono definiti su Wikipedia «ex politici», ma stando ai quotidiani bisognerebbe cancellare il prefisso ex.
Se consideriamo la mafia come soggetto non solo politico ma anche economico, lo scenario non è più incoraggiante. Nonostante le associazioni anti-racket, i movimenti “dal basso” come Addiopizzo, i codici etici delle associazioni di categoria (agricoltori, industriali, commercianti), la maggior parte dei cittadini che lavorano e producono continua a ritenere conveniente, o meno oneroso, pagare il pizzo. Anzi, ho raccolto dai diretti interessati confidenze che non sospettavo: anche professionisti, avvocati contribuiscono di tasca propria a mantenere le famiglie dei carcerati pur di non avere fastidi di nessun genere per sé e per i clienti dei propri studi. A quanto sembra, anche in considerazione della pandemia, si paga di meno ma si paga.
Alle cosche servono sì gli spiccioli, ma soprattutto un segno di riconoscimento della loro “signoria territoriale” (Umberto Santino). Senza contare la funzione erogatoria di denaro che le casse dei mafiosi sono in grado di esercitare quando le banche chiudono i rubinetti. E pazienza se i prestiti vengono concessi a tassi d’interesse usurari.
Perfino sul piano culturale – intendo della mentalità dominante, dei parametri di giudizio e di comportamento – il sistema mafioso, pur accusando indubbi regressi, può vantare un bilancio positivo. Meno di un anno fa ho appreso dalla stampa locale che un mio vicino di casa, in lite con l’inquilino, ha proposto una serie di incontri conciliatori pre-giudiziari nello studio di un noto commercialista. Le trattative hanno dato buon esito: il proprietario non ha affrontato le spese di riparazione richiestegli e il locatario potrà pagare la metà della mensilità a suo tempo concordata. Piccolo particolare: i due contraenti si erano presentati agli incontri accompagnati, ciascuno, da un boss di rilievo. Commento delle autorità giudiziarie: “Se nel 2021 la borghesia ricorre ancora a questo genere di intermediazione, che speranze abbiamo per l’immediato futuro?”.
"Cosa nostra è un camaleonte", spiega la pm Imbergamo
È cambiato molto, è cambiato poco. È cambiato comunque abbastanza per non demordere, per superare lo scoramento provocato dai tradimenti attuati in questi anni da magistrati e prefetti, parlamentari e medici, professori universitari e imprenditori che, in nome dell’antimafia, hanno guadagnato posti di potere e accumulato denaro illecito. Per non scoraggiarsi leggendo, come in questi giorni, che alcuni funzionari pubblici (tra cui un vice-prefetto) hanno da tempo ottenuto mazzette in cambio dell’assunzione di giovani candidati nei ranghi dei vigili urbani, degli agenti penitenziari e della polizia di Stato.
La volontà di persistere in questa faticosa battaglia, dall’esito certo ma dai tempi incerti, pulsa in molte città: a Torino come a Catania, a Milano come a Caserta. Da alcuni anni ha trovato a Palermo, a due passi dalla cattedrale, anche un luogo simbolico che migliaia di cittadini e di turisti hanno già visitato: il No mafia memorial, un museo interattivo della storia della mafia e dell’antimafia nonché laboratorio di continue iniziative di formazione e informazione. Nient’altro che una delle tante piccole luci che, tra delusioni e sconfitte, l’Italia migliore ha provato ad accendere in questi tre decenni. Sulla scia della saggezza orientale secondo cui è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.
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