(Jeswin Thomas/Unsplash)
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Analfabetismo funzionale in Italia, cause e dimensioni di un fenomeno che si nutre di disuguaglianze

Cosa significa analfabetismo funzionale? Quanti sono gli analfabeti funzionali in Italia? Il fenomeno è davvero in crescita, soprattutto tra le nuove generazioni? Cosa bisognerebbe fare per contrastarlo? Provare a rispondere a queste domande è uno sforzo necessario, per arginare un problema che si alimenta di povertà e disuguaglianze e rischia di aggravarle ancora di più

Francesco Rossi

Francesco RossiGiornalista e consulente lavialibera

22 giugno 2022

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Tra i molti argomenti che hanno a che fare con il mondo della scuola e dell’istruzione, l’analfabetismo funzionale è forse uno dei più dibattuti, spesso purtroppo con approssimazione.  rea, secondo molti, di un atteggiamento troppo permissivo, che non riesce ad arginare questa deriva. È davvero così? E cosa andrebbe fatto per invertire la rotta? Impossibile dare una risposta, se non elevando la discussione a un livello di complessità maggiore. Prima, però, è necessario mettere in fila strumenti e dati a sostegno dell’analisi, andando a definire chi è l’analfabeta funzionale, a misurare quanto sia diffuso il problema nel paese e a indagarne le cause.

Chi è l’analfabeta funzionale

Il significato della locuzione analfabetismo funzionale (o anche illetteratismo) è ufficialmente cristallizzato da molti anni. Infatti, la definizione più compiuta di chi deve considerarsi analfabeta funzionale risale addirittura al 1984 ed è dell’Unesco:

“una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità"

 L’obiettivo dell’Agenzia, dopo anni di campagne per la scolarizzazione di massa, era quello di alzare l’asticella nella valutazione dei sistemi nazionali di istruzione, spostando l’attenzione dalla mera capacità di legger e scrivere alla più articolata e utile capacità di comprendere davvero ciò che si legge. È bene precisare, poi, che il testo scritto a cui fa riferimento l’Unesco è quello pensato per la fruizione da parte di persone comuni, non certo un testo tecnico per addetti ai lavori.

A quasi quaranta anni da quella definizione, il suo cuore rimane sostanzialmente valido e inalterato, ma i suoi confini si sono allargati, arrivando a ricomprendere nelle abilità che bisogna avere per non essere considerati analfabeti funzionali anche l’esecuzione di calcoli matematici semplici, l’utilizzo delle tecnologie digitali di base, la conoscenza non superficiale degli eventi storici, sociali e politici e il senso critico. Quest’ultimo elemento ha assunto particolare rilevanza in tempi recenti, perché strettamente connesso con il problema della diffusione delle fake news.

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Analfabetismo funzionale vs analfabetismo strumentale

Così definito, l’analfabetismo funzionale si discosta nettamente da quello strumentale (o strutturale). L’analfabeta strumentale, infatti, non sa né leggere, né scrivere, quindi manca degli strumenti di base e la sua difficoltà inizia ben prima della comprensione di un testo. Oggi, fortunatamente, gli analfabeti di questo tipo sono un’esigua minoranza in Italia, poco più di 350mila persone secondo l’Istat, mentre rappresentavano una fetta molto più ampia fino alla prima metà del ‘900. 

Analfabetismo di ritorno

C’è contiguità, invece, tra l’analfabetismo funzionale e quello di ritorno. Quest’ultimo fenomeno, infatti, è codificato come la condizione di colui che ha acquisito le competenze necessarie per vivere consapevolmente in società, completando un ciclo completo di studi, ma poi le ha perse. L’analfabeta di ritorno, quindi, è un ex-alfabetizzato che si ritrova a non sapere comprendere un testo o a fare conti basilari (quindi analfabeta funzionale).  Difficilmente, infatti, si arriva al punto di perdere completamente la capacità di scrittura e lettura.

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Misurazioni e dati: quanti sono gli analfabeti funzionali in Italia

La differenza tra analfabetismo strumentale e funzionale assume particolare rilievo quando si tratta di contare i cittadini che rientrano nell’uno o nell’altro gruppo. Infatti, se censire chi non sa leggere e scrivere appare piuttosto semplice, lo è molto meno valutare la quota di popolazione che rientra nella definizione di analfabeta funzionale. Non a caso, il tema della misurazione (e del confronto dei dati nel tempo) è l’aspetto più scivoloso della questione, su cui cadono spesso anche i mezzi di informazione e gli opinionisti di settore, alla ricerca di sentenze ad effetto. D’altra parte, per portare a termine un’indagine di questo tipo bisogna accordarsi a priori su quali siano i livelli minimi che discriminano tra una persona funzionalmente alfabetizzata e una che non lo è, strutturare un test che permetta di misurare tali capacità (con tutti i limiti intrinseci a qualsiasi test) ed infine estrarre ed elaborare le risposte. Tutte attività che richiedono metodo e tempo. 

Ecco perché, a livello internazionale, la rilevazione più attendibile a cui far riferimento è il Programme for the international assessment of adult competencies (Piaac), promosso dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e articolato in tre aree: literacy, numeracy e problem solving. Va avanti da circa 20 anni, è organizzato in cicli (ora è in corso il secondo) e vi prendono parte 34 paesi (erano 38 nel primo ciclo). E cosa dice il Piaac riguardo all’analfabetismo funzionale in Italia? Diverse cose interessanti, senza dubbio. Secondo i dati Ocse, gli analfabeti funzionali italiani sono il 27,7 per cento della popolazione. Tanti, infatti, sono i cittadini che non vanno oltre il livello 1 misurato dall’indagine, che corrisponde alla comprensione di testi semplici (anche lunghi) e familiari, all’esecuzione di calcoli intermedi, alla comprensione di grafici, tabelle e funzionamenti di software. Nella classifica generale, l’Italia si ritrova praticamente appaiata con Spagna (27,5%) e Israele (27%), mentre fanno peggio solamente Turchia (45,8%) e Cile (53,1%). 

Sezionando ancora meglio i dati, come ha fatto Invalsi Open, gli spunti di riflessione aumentano. Vi si trova conferma, ad esempio, di quanto ancora pesino le differenze geografiche tra nord e sud, visto che le regioni appartenenti al primo gruppo sono in media con gli altri Paesi Ocse, mentre quelle del mezzogiorno fanno nettamente peggio. Al contrario, invece, i numeri smentiscono la diffusa convinzione che la situazione stia precipitando. In realtà, invece, confrontando i dati con indagini Ocse precedenti (International adult literacy survey 1994-98Adult literacy and lifeskills 2006-08), ci si rende conto che la situazione in Italia sta moderatamente migliorando, perché in termini assoluti l’analfabetismo non cresce, lo scostamento del punteggio medio italiano rispetto a quello degli altri paesi è in discesa e i divari di età e di genere si stanno asciugando. Tutto merito della formazione: la metà dei giovani tra 16 e 24 che studiano raggiunge il livello 3 (capacità di comprendere testi digitali o cartacei particolarmente lunghi e complessi), mentre la quota scende al 23 per cento tra i ragazzi che lavorano e addirittura al 18 per cento tra i Neet. Sul totale degli individui tra i 16 e i 65 anni, invece, il livello 3 è raggiunto solo nel 26,4 per cento dei casi. Questo significa che ad alzare la media dell’alfabetizzazione in Italia sono proprio i giovani che vanno a scuola, all’università o che seguono percorsi formativi

No, l’analfabetismo non è colpa dei giovani

Che le cose vadano in questa direzione lo confermano anche i dati Ocse – Pisa, sostanzialmente equivalenti a quelli Piaac ma focalizzati sui giovani fino a 16 anni, quindi in età scolare. Secondo questa indagine, che viene svolta periodicamente da 20 anni, circa il 75 per cento degli studenti italiani raggiunge almeno il livello 2 (quello considerato accettabile) delle competenze in italiano, matematica e scienze; e i punteggi medi nelle tre materie sono sostanzialmente nella media Ocse o poco sotto. Soprattutto, però, l’indagine rivela come la situazione non stia affatto peggiorando sul lungo periodo, fatta eccezione per le competenze in scienze, che dopo la crescita della prima metà degli anni ’10, sono tornate a scendere, fino a toccare i livelli del 2006.

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Tra cause e soluzioni: l’analfabetismo è un problema multifattoriale

Come sottolineava già quindici anni fa Tullio De Mauro, linguista ed ex ministro dell'Istruzione che al tema ha dedicato quasi l’interna vita, l’analfabetismo funzionale è uno dei più gravi intoppi che blocca l’ascensore sociale e lo sviluppo socioeconomico, sia individuale che collettivo

Dalla lettura di questo ampio elenco di statistiche, è possibile trare qualche considerazione sulle cause dell’analfabetismo funzionale per ragionare sulle misure di contrasto.  In primo luogo, continuare a parlare di crisi non è corretto e non aiuta il dibattito sul tema; quella che emerge dai dati, infatti, è una stagnazione, e non è comunque una buona notizia. Anche perché, come sottolineava già quindici anni fa Tullio De Mauro, linguista ed ex ministro dell'Istruzione che al tema ha dedicato quasi l’interna vita, l’analfabetismo funzionale è uno dei più gravi intoppi che blocca l’ascensore sociale e lo sviluppo socioeconomico, sia individuale che collettivo. Non padroneggiare almeno in forma basilare parole e numeri significa avere difficoltà di inserimento nella società e collocarsene ai margini. “Tutti gli usi della parola a tutti – scriveva Gianni Rodari nella Grammatica della Fantasia – mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico; non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Per contrastare il fenomeno dell’analfabetismo funzionale, però, bisogna aver chiaro in mente che la sua genesi è multifattoriale e smettere di addossare tutta la colpa ala scuola e a un ipotetico e non meglio precisato indebolimento delle nuove generazioni. Anzi, visto che, come emerge dai citati rapporti, il sistema di istruzione e formazione rappresenta un baluardo contro l’analfabetismo funzionale, è necessario lavorare affinché sia più efficiente, capillare ed inclusivo. L’effettiva attuazione del diritto all’istruzione  passa necessariamente per maggiori investimenti, sia in termini di soldi che di energie: più edifici, più dotazioni infrastrutturali, più tecnologia, nuove metodologie didattiche, valorizzazione del ruolo dei docenti.

Agire sulla scuola però, non basta, perché i numeri rivelano che a contare sono anche molti altri elementi che costituiscono il contesto, come le condizioni economiche e il luogo in cui si vive. Chi rischia maggiormente di essere o diventare analfabeta funzionale è chi appartiene alle fasce deboli della popolazione e magari vive in zone urbano o rurali di frontiera, con scarsi spazi pubblici di aggregazione e penuria di servizi alla cittadinanza. Ecco perché le ricette per contrastare la povertà educativa e formativa passano anche per vie indirette: sussidi al reddito, sostegni alla disabilità, rafforzamento dei servizi di prossimità (sanitari, educativi, di trasporto, eccetera), cura degli spazi e dei beni pubblici. Ancora una volta, infatti, la realtà non mente: il tessuto sociale a cui si appartiene (purtroppo) rischia di contare più del talento e della buona volontà

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